sabato 7 ottobre 2017
il sovrintendente di Santa Cecilia: «Vedo crescere l'interesse del pubblico, mecenati e politica tornano a investire in cultura. Servono dialogo con la società, stagioni innovative e conti in ordine»
Michele Dall'Ongaro, sovrintendente dell'Accademia nazionale di Santa Cecilia

Michele Dall'Ongaro, sovrintendente dell'Accademia nazionale di Santa Cecilia

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Sta sulla porta. Come davanti a casa. Ad accogliere chi arriva. «Perché siamo come in famiglia» dice, stringendo mani, Michele Dall’Ongaro che, però, tiene subito a precisare che «non è una frase di circostanza, ma è il clima che davvero si respira all’Accademia nazionale di Santa Cecilia». La “sua” casa dal 2015, da quando è stato nominato presidente e sovrintendente della fondazione lirico-sinfonica di Roma. La porta è quella dell’Auditorium Parco della musica. Sopra una locandina, Re Ruggero di Karol Szymanowski. «Il titolo che con Antonio Pappano abbiamo scelto per l’inaugurazione di quest’anno è anche una dichiarazione d’intenti: non vogliamo adagiarci su un repertorio consolidato e consolatorio, che pur ci deve essere perché fa crescere l’orchestra, ma vogliamo provare a cercare bellezza e intelligenza in pagine meno note, anche a costo di rischiare» dice Dall’Ongaro convinto che «compito di chi guida un’istituzione come Santa Cecilia sia quello di chiedersi cosa la musica può fare oggi per le persone».

Quale risposta si è dato, Michele Dall’Ongaro?

«La musica, ne sono convinto, deve cambiare la vita, migliorarla, renderla più interessante e fornire strumenti di comprensione della realtà. Chi viene a un concerto prova a condividere valori che le grandi pagine dei compositori di tutti i tempi propongono, perché la musica non può essere solo qualcosa da ascoltare per passare del tempo libero, ma deve diventare un’esperienza che edifica le persone, deve essere uno strumento di conoscenza, uno sguardo per provare a capire il mondo. Mondo con il quale noi organizzatori dobbiamo entrare in sintonia ascoltandone il respiro e il battito cardiaco».

L’immagine è indubbiamente bella, ma concretamente come si declina?

«Mettendo in cartellone una pagina rara come Re Ruggero. Disegnando una stagione che vuole indagare un Novecento meno noto e che non ha paura di proporre musica contemporanea accanto ai grandi capolavori sinfonici. Ma anche con i progetti nelle scuole, il lavoro con i giovani, i percorsi di musicoterapia, e con iniziative sociali come il coro Fidelio con i detenuti del carcere di Rebibbia. Essere al timone di un’istituzione come Santa Cecilia è come guidare una Ferrari, certo occorre farlo con prudenza per non andare a sbattere».

Si riferisce alla gestione economica?

«Negli anni abbiamo affrontato i problemi con i quali tutte le fondazioni lirico-sinfoniche devono fare i conti, penso alla questione finanzia- menti e al bilancio che, da 11 anni, chiudiamo in pareggio. Le nostre entrate arrivano per metà dai contributi pubblici di Comune di Roma, Regione Lazio e ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo. Il resto arriva per un 25% dalla biglietteria e dalle attività discografiche e per il restante 25% da privati, sponsor, ma anche un cospicuo gruppo di mecenati che ci sostengono con un milione e mezzo di euro. In molti, dai politici ai privati cittadini, stanno capendo l’importanza di investire in cultura. E questo mi rende ragionevolmente ottimista».

I conti a posto sono stati fondamentali per ottenere l’autonomia gestionale concessa dal ministero alle fondazioni “virtuose”.

«Ma per raggiungere questo obiettivo è fondamentale la condivisione da parte di tutti i lavoratori consapevoli di essere una grande famiglia dove si lavora insieme per lo stesso scopo. Abbiamo un’orchestra che suona sul palco, ma a Santa Cecilia ci sono tante altre “orchestre”, quella degli amministrativi, quella dei tecnici che se non si ascoltano, se non sono accordate non funzionano».

Rispetto alle altre fondazioni liricosinfoniche, Santa Cecilia non ha un teatro d’opera…

Una “anomalia” che ci consente una maggiore flessibilità, permettendoci di essere la fondazione che fa maggiori tournée, proprio perché non dobbiamo spostare scene, costumi, macchinisti… Detto questo percepisco un affetto e una stima da parte delle altre istituzioni che collaborano volentieri con noi. Intorno all’Accademia nel tempo de grazie alla guida di Antonio Pappano si è costruito un consenso internazionale che fa sì che non siamo più considerati solo una formazione alla quale vengono richiesti programmi italiani, portiamo autori di ogni Paese. E quando andiamo nel mondo siamo orgoglioso di portare un pezzo di Italia bella. Lo faremo anche tra poco negli Stati Uniti, dove a fine mese torneremo dopo quarantotto anni: a New York ci confronteremo con un pubblico che è abituato ad ascoltare il meglio che c’è nel mondo».

Il pubblico di casa, invece, com’è?

«Un pubblico prevalentemente romano, colto, con un reddito medio alto: il tipico “consumatore” di cultura del nostro Paese. Ma accanto a questo c’è un pubblico nuovo, quello dei giovani, che abbiamo il dovere di coltivare facendo loro percepire la musica soprattutto come una festa».

Il mondo dei social può aiutarvi in questo?

«Indubbiamente. Certo, il mondo dei social va veloce e la contemporaneità di ciò che in esso avviene non permette di seguire sempre tutto ciò che accade. Se un concerto dal vivo resta un’esperienza unica, è anche vero che la diffusione di idee, di proposte attraverso i mille canali della rete è fondamentale: abbiamo una pagina Facebook che funziona, stiamo rinnovando il sito e il PappanoinWeb, piattaforma che lo scorso anno con lo streaming della Nonadi Beethoven dallo Stadio del tennis ha registrato qualcosa come 52 milioni tra contatti, hastag e interazioni. Segno che c’è un interesse diffuso nei confronti di una musica che non è solo per vecchi».

© RIPRODUZIONE RISERVATA CONCERTO. Il “Re Ruggero” di Szymanowski diretto da Antonio Pappano all’Auditorium della Musica. Sotto, Michele Dell’Ongaro

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