venerdì 7 gennaio 2022
La biografia, scritta da Marco Tarozzi, ripropone l’era insuperata del padre patron dei rossoblù che per trent’anni guidò il club fino allo scudetto dello spareggio del 1964
Lo storico presidente del Bologna Renato Dall’Ara (1892-1964)

Lo storico presidente del Bologna Renato Dall’Ara (1892-1964) - Edizioni Minerva

COMMENTA E CONDIVIDI

Se dopo il suo Dante, il bolognese doc Pupi Avati avesse voglia di girare il sequel di Ultimo minuto – unico degno film italiano di ambientazione calcistica – , la sceneggiatura la trova già pronta nel libro di Marco Tarozzi, Dall’Ara. Renato sono io( edizioni Minerva del vulcanico Roberto Mugavero). Una bella storia italiana, da leggere con un sottofondo jazz, magari quello della band bolognese del virtuosissimo Hengel Gualdi a fare da colonna sonora fino all’ultima pagina. È un libro sentimental monumentale che sarebbe tanto piaciuto a dallariano Lucio Dalla, quello con cui Tarozzi ha omaggiato l’ultima storica torre umana del calcio rossoblù, il patron di quel Bologna che «Tremare il mondo fa», Renato Dall’Ara.

Razza contadina, classe 1892, ceppo reggiano (come Gualdi, nato a Correggio), cresciuto, senza padre, con i suoi sette fratelli nel podere della Stracchina. Da maresciallo di cavalleria tornò a casa dalla Grande Guerra con un branco di purosangue la cui vendita diede il là alla carriera dell’imprenditore generoso, vincente, quanto visionario. Il calcio, una delle sue passioni («Se non c’è passione che vita è?», amava ripetere), condiviso con la donna di una vita, la Nella e i due 'figli adottivi', i nipoti Ferruccio e Augusto (figli di un fratello emigrato in Africa ).

Quella per il Bologna all’inizio fu una passione da comune tifoso, ma a coloro che hanno divulgato per anni un Dall’Ara più interessato all’affare del pallone che a un’autentica scelta di cuore, Tarozzi, con questa biografia spazza in tribuna ogni dubbio, ricordando le trasferte domenicali del Cavalier Renato al seguito della squadra, assai prima di prenderne in mano le redini. Già negli anni ’30 per permettersi una società di calcio occorrevano i denari, e parecchi, e quelli, con un’intuizione delle sue il giovane Dall’Ara li aveva guadagnati in fretta grazie alla folgorazione per il giaccone del generale Umberto Nobile.

«L’eroe della propaganda fascista» che, dal 10 aprile al 14 maggio del 1926, con il dirigibile Norge aveva compiuto l’impresa, assieme all’esploratore norvegese Roald Amudsen: la prima trasvolata da Ciampino al Polo Nord, e da lì fino all’Alaska. La foto di Nobile sulla prima pagina della 'Domenica del Corrriere' scatenò la sua fantasia mercantile: mettere subito in commercio quel giaccone a prova di gelo polare creando la termomaglia, ovviamente etichetta 'Norge'. Inizia così la fortuna della premiata ditta Dall’Ara che lo porterà ad accettare l’offerta dell’imprenditoria locale che lo nomina prima commissario e poi gli chiede di assumersi in prima persona l’onere della causa del Bologna Fc.

L’investitura ufficiale avvenne l’8 giugno del 1934. E da subito il nuo- vo patron fa capire che non è lì, al timone, per caso. Dall’Ara sa di calcio come di cavalli, di macchine («le mollava per la strada dove voleva lui», ricorda divertito Tarozzi) e di maglieria, perché vive il Bologna con lo stesso spirito familiare con cui manda avanti l’azienda. Un ruspante, contadino scarpe grosse e cervello fino, che usa il latino in salsa maccheronica più per stupire che per manifesta ignoranza, sottolineata ad ogni sua uscita dialettica in fuori gioco dai falchi detrattori che svolazzavano ridanciani sotto i portici della Dotta.

Dall’Ara sa di football e conosce bene anche le strategie del calciomercato. A gennaio del ’35 esonera l’ungherese Lajos Kovács e ingaggia il connazionale Arpad Weisz, reduce dallo scudetto vinto all’Ambrosiana Inter che porta il Bologna a risalire la classifica fino al 6° posto. Prove tecniche di tricolore: lo scudetto arriva puntuale l’anno seguente in cui il Bologna con appena 14 giocatori – record assoluto insuperato – interrompe il dominio della Juventus. E Weisz, primo mister a vincere il titolo con due squadre diverse, conquista il 3° scudetto della storia del club rossoblù, il primo del ciclo aureo di Dall’Ara.

Nel ’37 nella bacheca del Bologna ripone anche il Trofeo dell’Expo di Parigi con tanto di 4-1 rifilato in finale al Chelsea. Il pubblico dal palato fine dello stadio del Littorio (oggi stadio Dall’Ara) era abituato ormai troppo bene e vide nel 5° posto del ’38 un segnale preoccupante. Ma mai quanto la promulgazione delle leggi razziali del fascismo che costrinsero alla fuga l’ebreo Weisz e la sua famiglia. Matteo Marani, nel libro Dallo scudetto ad Auschwitz ha ricostruito la tragica vicenda dei Weisz attraverso i registri della scuola bolognese che aveva espulso i figli dell’allenatore e della moglie Elena, Roberto e Clara. Dall’Ara si commuoveva ogni volta che ripensava al giorno in cui salutò per l’ultima volta mister Weisz, che con i suoi cari fece un viaggio di solo andata, destinazione il campo di sterminio nazista.

La peggiore sconfitta del suo trentennale da presidente di un Bologna inimitabile che con il suo fiuto per i talenti e le dritte di mercato delle ex glorie rossoblù – il danese Axel Pilmark (gli regalò Nielsen) l’uruguagio Sansone (prese Maschio) e l’amico fidato Anzolen Angelo Schiavio (campione del mondo nel ’34 con l’altro rossoblù Andreolo) – , portò sotto le Torri 5 scudetti, una Coppa dell’Europa Centrale, quella dell’Expo parigino e una Mitropa Cup. Nel ’62 l’ultimo grande colpo di Dall’Ara: il panzer tedesco Haller – per lui «Aler» – strappato a un futuro da camionista, e quello divenne il faro del Bologna del 'Dottore' Fuffo Bernardini, artefice dell’ultimo capolavoro e ultimo scudetto rossoblù, stagione 1963-’64. L’unico titolo, nella secolare storia della Serie A, assegnato allo spareggio.

Un titolo diventato a un certo punto una chimera, per il primo grande scandalo del 'calcio dopato'. Un’accusa infamante che richiese a Dall’Ara la messa in campo di tre aggueritissimi legali, che, in zona Cesarini, riuscirono a scagionare i cinque presunti positivi: Fogli, Tumburus, Pavinato, Perani e Pascutti. In quei giorni cupi del sospetto, la città tutta si strinse intorno al Presidente e alla sua amata creatura. L’Italia del pallone si divise tra innocentisti e giustizialisti e lo sfottò dalla sponda interista si sfogò contro i rossoblù che erano stati messi alla sbarra. Così che Tumburus per la pubblica ottusità divenne «Punturus», Janich «Fialich» e l’estraneo ai fatti, ma pur sempre la stella più luminosa di quel Bologna, Giacomo Bulgarelli, si beccò l’appellativo di «Drogarelli».

Le accuse di doping vennero smontate una ad una anche grazie all’inchiesta dell’allora giovane cronista di 'Stadio', Italo Cucci, tifoso anche lui di quel Bologna che, il 7 giugno del 1964, alla vigilia dei trent’anni dell’era Dall’Ara, poteva, candidamente scagionato (con 3 punti restituiti), presentarsi allo stadio Olimpico di Roma per lo spareggio del secolo contro l’Inter del Mago Helenio Herrera e del presidente Angelo Moratti. E qui, alla ricostruzione romanzesca-teatrale, con tanto di monologo di Dall’Ara ricreato da Tarozzi, sarebbe richiesto l’ingresso dell’occhio registico di Pupi Avati per trasporre sul grande schermo l’incontro tra il presidente del Bologna e l’Angelo nerazzurro. Due figli di quell’Italia contadina che, con l’intelligenza e la creatività superiore, avevano scalato e vinto la loro sfida sociale e ora si concedevano il lusso di un testa a testa con il giocattolo di famiglia, il calcio.

Si erano dati appuntamento a Milano per discutere dei premi partita per lo spareggio, e Dall’Ara, accompagnato dalla Nella, aveva voluto esserci a tutti i costi, nonostante quel cuore matto avesse dato segnali allarmanti. Ma al cuor non si comanda e quello rossoblù del Cavalier Renato batteva così forte per l’emozione: il sogno di poter strappare lo scudetto ai freschi campioni d’Europa e al grande petroliere Moratti era ad appena 90 minuti dal realizzarsi. Ma quel cuore, complice un urlo e uno scossone di troppo nella concitazione dell’incontro, si fermò per sempre, il 3 giugno del 1964.

Dall’Ara morì quattro giorni prima che Bernardini («stimato, ma con il quale non aveva mai legato fino in fondo», sottolinea Tarozzi) con quella squadra «che gioca come si gioca in Paradiso», nella sua Roma venisse incoronato campione d’Italia. Il Bologna scese in campo con la morte nel cuore e il lutto al braccio per onorare la memoria di un «secondo padre» per tutti i suoi giocatori. Ma ognuno di loro, a cominciare dal protagonista assoluto dello spareggio, Romano Fogli (Dall’Ara fu anche suo testimone di nozze) - autore del primo gol e dell’assist del secondo realizzato da Nielsen – quel giorno ha raccontato di sentirsi invincibile.

«Quella giornata di Roma fu tristissima e meravigliosa » e quello scudetto era tutto per il suo padre patron. Il giorno del funerale, tutta Bologna scese in strada per l’estremo saluto a quell’uomo grande che era stato Renato Dall’Ara, il quale, vedendo tutta quella brava gente in lacrime probabilmente l’avrebbe rassicurata con una delle sue uscite latinesche: «Niente paura, sine qua non, tradotto: siamo qua noi».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: