
Una immagine dello spettacolo "I mangiatori di patate" di Romeo Castellucci al Lazzaretto Vecchio a Venezia - Foto La Biennale di Venezia
«Come scriveva Rainer Maria Rilke: “Il primo verso di una poesia è dato da Dio, mentre tutto il resto è dura fatica dell’uomo”. Il corpo dell’attore incarna l’impulso propulsivo di quel primo verso: è puro istinto, verità, ispirazione. Proprio perché non possiamo controllarlo, proviene direttamente da Dio e dalla celebrazione degli esseri viventi». L’obiettivo dichiarato nella sua presentazione da Willem Dafoe, direttore artistico della 53ª edizione della Biennale Teatro di Venezia, è chiaro e semplice: “Theatre is body, body is poetry“. Il teatro è corpo, il corpo è poesia: è questo il tema del Festival internazionale del teatro di cui l’attore americano assume la guida per il triennio. Un corpo che ci parla di altro: di trascendenza, di verità, di ferite e di radici.
Gli spettacoli andati in scena nell’ultimo fine settimana della programmazione — che si conclude stasera con il concerto della cantautrice Daniela Pes Spira — rispecchiano questa idea di ritorno alla centralità del corpo umano, proprio in un’epoca segnata dalla smaterializzazione tecnologica.
Il corpo è al centro della misteriosa e straniante esperienza de I mangiatori di patate, una performance site-specific di Romeo Castellucci coprodotta da Societas e La Biennale di Venezia. Il riferimento al celebre quadro di Van Gogh è solo una porta: ci introduce nel buio di un mondo sull’orlo del baratro, alla ricerca di una luce, di una risposta forse, dove i simboli cristiani emergono in modo non solo estetico, ma spirituale e inquietante.
Si procede in piccoli gruppi attraverso i corridoi bui del Lazzaretto Vecchio di Venezia che ancora riecheggiano delle sofferenze dei corpi malati di secoli fa. Strane creature strisciano nell’oscurità, fino a quando, dopo un momento di buio totale, in cui il pubblico viene investito da un rumore assordante e da un vento “atomico”, si apre la scena: una statua di un angelo (del Giudizio?) è circondata da un gruppo di minatori. Tra gigli e mani giunte, questi “liberano” da un sacco il corpo pallidissimo di una donna morta. Ma lei, all’improvviso, parla un linguaggio misterioso, si esprime con gesti plastici, precisi, scolpiti da nitide luci caravaggesche. Finché, riassopitasi, riappare l’angelo: ha la testa mozzata. A dirci cosa?
Corpi veri e storie drammaticamente reali sono quelli che si intrecciano in Die Seherin (La veggente), spettacolo essenziale e potentissimo del regista Milo Rau, con un’eccezionale Ursina Lardi — che ieri ha ricevuto il Leone d’Argento della Biennale Teatro 2025. Attrice svizzera di 54 anni, tra le figure più importanti della scena teatrale di lingua tedesca, Lardi è anche co-autrice del testo insieme a Rau. Interpreta una fotografa di guerra che viaggia nelle zone di conflitto in cerca di storie estreme. Sembra invulnerabile al dolore. Ma quando subisce violenza in prima persona, diventa una Cassandra contemporanea, una veggente che cerca di aprire gli occhi a un mondo cieco.

Ursina Landi in scena ne "La veggente" di Milo Rau a Venezia - Foto La Biennale di Venezia
Lo spettacolo si basa su testimonianze reali di fotografi di guerra, cittadini iracheni e sull’esperienza personale di Rau, tra cui l’incontro a Mosul con Hassan Azad, un insegnante a cui l’ISIS ha amputato una mano per punizione.
Il testo è costruito su interviste reali: la protagonista è fittizia, ma le sue parole sono vere testimonianze di diversi reporter. Su una distesa di sabbia, la fotografa racconta in prima persona la sua attrazione infantile per le immagini di guerra, poi diventata ossessione per esecuzioni e morti. Da adulta attraversa i teatri di guerra: Albania 1997, Iraq 2003, Afghanistan, Sudan, Libia, Gaza. Rivediamo in diretta gli orrori della storia raccontati da chi li ha visti e testimoniati. Per lei, quegli scatti di bambini uccisi, dittatori abbattuti, esecuzioni di massa e fosse comuni sono “perfetti”, in quanto catturano l’attimo esatto in cui la morte accade. Con l’amara consapevolezza che, dice, «se una guerra dura più di tre mesi, nessuno se ne interessa più. Le agenzie stampa vogliono il primo sangue. Perché dovrebbero parlare del centesimo attentato?».
Poi la violenza la raggiunge: al Cairo, durante il caos delle Primavere Arabe, viene picchiata, abusata, filmata. Nulla è più come prima. È lei ora la vittima. La salvezza arriva, paradossalmente, da un altro sopravvissuto, l’uomo che arriva dal deserto.
Hassan Azad, oggi trentenne, è un insegnante di Mosul. A vent’anni, condannato con il fratello da un tribunale islamico al taglio della mano destra (dopo una sentenza iniziale di decapitazione e crocifissione), per aver sequestrato della farina non pagata. Una punizione assurda.
Parla dal grande schermo, alle spalle di Lardi, sullo sfondo un campo profughi in Iraq. Alterna il suo racconto a quello dell’attrice: l’arrivo degli americani nel 2003, l’ascesa dell’ISIS, la violenza della sharia, le torture, le lapidazioni, il dolore nella sua famiglia. Alla fine, le due storie si incrociano realmente: Ursina Lardi e Milo Rau lo incontrano durante le riprese di un documentario.
La fotografa violata e l’uomo mutilato cercano una via di uscita, un riscatto. Vogliono guardare negli occhi i loro carnefici. Non trovano pentimento. Solo «occhi vuoti e spenti, come se parlassero di eventi dall’altra parte del mondo - recita l’attrice -. Ma anche loro, forse, sono da compatire. Sconfitti della storia».
Sulle note dell’Agnus Dei dalla Messa in Si minore di Bach, nasce tra i due protagonisti un incontro umano. Apre e chiude lo spettacolo la voce di Ursina: «È uno sconosciuto. Un perfetto sconosciuto a cui non ti lega nulla. Viene verso di te sin dall’inizio dei tempi. Giorno e notte. Attraverso il deserto, il caldo e la pioggia. Come sapeva dove trovarti? Come ha fatto a riconoscerti quando ti ha visto? Come ha potuto darti ciò che aveva per te?». Un monito anche per noi.
Un altro monito arriva dall’Africa, giovane, potente, contemporaneo: Princess Isatu Hassan Bangura, artista interdisciplinare della Sierra Leone, diplomata alla Toneelacademie di Maastricht. Tra le voci più promettenti del teatro contemporaneo, ha presentato in questo weekend veneziano Blinded by Side – An Oedipus Monologue e Great Apes of the West Coast, la sua opera più nota.
Una performance solista che fonde teatro, musica e danza, esplora le sue radici africane e l’esperienza della migrazione nei Paesi Bassi, dove è arrivata a 13 anni, fuggendo con il padre da una Sierra Leone in fiamme. Una salvezza che si accompagna alla dolorosa scoperta di essere considerata “diversa” per il colore della pelle. Con voce e corpo, Princess costruisce un ponte: una lettera d’amore alla sua terra, tra immagini e suoni della Sierra Leone, ma con la consapevolezza e il linguaggio del teatro occidentale. Alla ricerca di un ponte tra le culture.