domenica 27 luglio 2014
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Se vuoi sapere qualcosa del cinema, vai a Hollywood; se vuoi sapere qualcosa di architettura vai a Chicago. L’affermazione di Lee Bey, critico dell’architettura, consegue al recente annuncio che la maggiore città dell’Illinois terrà nel 2015 la sua Biennale di Architettura. Com’è noto a Venezia la Biennale si svolge negli anni pari: Chicago sembra profilarsi come il contraltare di tale iniziativa proponendosi negli anni dispari. L’apodissi di Lee Bey implicitamente puntualizza anche il senso e il rischio di questo genere di iniziative: l’architettura è definitivamente due cose distinte per quanto non distanti: è spazio costruito, ma è anche spettacolo. E a Chicago questo duplice aspetto sarà ben presente.  Come ha evidenziato il sindaco Rahm Emanuel nell’annunciare l’evento: «L’architettura definisce la città. E nessuna città è stata influenzata dalla propria architettura più di Chicago. La Biennale attrarrà persone da tutto il mondo e Chicago tornerà a essere l’epicentro di quella progettualità». Con la Biennale, che avrà sede del Chicago Cultural Center, edificio del 1897 considerato un capolavoro del Beaux Art, avranno luogo tanti 'fuori salone', tra i quali visite alle architetture storiche, installazioni che richiamano sia edifici significativi esistenti nel mondo, sia idee progettuali future. Chicago, spiega Sarah Herda, la direttrice della Graham Foundation che curerà la Biennale insieme con Joseph Grima, è dove nacque il modernismo «e non c’è architetto al mondo che non conosca la tradizione volta all’innovazione espressa da personaggi come Louis Sullivan, Frank Lloyd Wright, Mies van der Rohe...». Chicago ha una storia particolare. Nel 1871 fu totalmente distrutta da un enorme incendio: era fatta in gran parte di legno, l’epoca era ancora quella pionieristica. Ma aveva un potere economico straordinario, essendo il centro nevralgico del Midwest dalle sconfinate pianure dove i campi di grano sono oceani e i pascoli sono mari. La borsa agricola di Chicago (Board of trade) sorse nel 1848 e rimane la più importante al mondo nella sua categoria. La città da ricostruire divenne non solo un grande cantiere, ma anche luogo di sperimentazione delle tecnologie nuove, che si andavano diffondendo in quegli anni: cemento armato e strutture metalliche. In tale afflato ricostruttivo e sperimentativo si formò quella che è stata chiamata la Scuola di Chicago. È la Chicago, puntualizza Romina D’Ascanio nel sito 'Frontiere.info', «di Sullivan, del suo socio Adler e delle innovative intuizioni sul costruire che ne fanno il 'profeta dell’architettura moderna' come lo definisce Zevi; e del Monadnock Building progettato nel 1891 da Burnham & Root con il record imbattuto di più alto edificio con telaio in ferro e struttura portante in mattoni».  Non a caso qui sorsero i primi grattacieli. Architettura e tecnologia andavano strettamente di pari passo. Un’altra particolarità: dalla metà dell’800 centinaia di edifici, in legno o mattoni, vi furono ricollocati: alcuni sopraelevati di qualche decina di centimetri per consentire di alzare i livello delle strade quando si rese necessaria la costruzione della rete fognaria. Poi l’opera continuò per i motivi più diversi. Su Lake Street, la passeggiata lungo il lago, tutti gli edifici furono sopraelevati, grandi o piccoli che fossero, incluse case in mattoni pluripiano. E mentre si portava avanti l’operazione, le usuali attività continuavano come se nulla fosse. Alcuni edifici furono trasportati in altre parti della città. Come scrisse David Macrae che passò un breve periodo a metà ’800: «Non passava giorno in cui non vedessi qualche casa trasportata in un altro quartiere. Un giorno ne contai nove. Mentre si andava a Great Madison Street con la carrozza a cavallo dovemmo fermarci due volte per attendere il passaggio di alcune case». Chissà che l’intuizione di F.L.Wright, di montare i suo grattacielo in Giapone su pattini che consentissero alla mole dell’edificio di oscillare per assorbire le vibrazioni sismiche, non sia derivata da questa peculiare tradizione della Chicago ottocentesca. «Per oltre un secolo – ha detto Grima – uno dei principali prodotti di esportazione da Chicago è stata l’innovazione in architettura. La Biennale è una straordinaria occasione per imparare da questa esperienza a riconsiderare le sfide e le opportunità che ci stanno di fronte sul proscenio globale. Per disegnare le città del futuro abbiamo bisogno di nuovi supporti di studio e di riflessione, e la storia di Chicago ci ricorda che che dobbiamo avere ampie prospettive». Ma su tali argomenti si sviluppa anche il problema: se per i 'padri fondatori' della Scuola di Chicago, così come per l’esule Mies van der Rohe, che dopo essere stato costretto a fuggire dalla sua Germania dove aveva fondato il Bauhaus, trovò a Chicago la sua nuova patria, e così come per alcuni studi di progettazione quale Skidmore Owings & Merrill, probabilmente il maggior artefice di grattacieli nel mondo, questa tradizione vuol dire 'hardware', ovvero strutture che reggono alle sfide del tempo, delle dimensioni, dell’abitabilità, per designer e comunicatori, tra i quali si annoverano anche i due curatori, Herda e Grima, architettura è in prevalenza software: spettacolo, immagine, apparenza. Qui sta il limite delle mostre di architettura: la tendenza che si incontra nella civiltà dello spettacolo, di trasformare lo spazio in esteriorità. E una Biennale, Venezia insegna, è un’occasione d’oro per fare dell’architettura, ovvero dello spazio costruito, una semplice ragione di esibizione che dice poco o nulla delle vicende dello spazio abitabile.
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