martedì 4 febbraio 2014
COMMENTA E CONDIVIDI
Natale 2004. La costa meridionale dell’India è in ginocchio dopo il micidiale tsunami che ha seminato lutto e desolazione nell’Oceano Indiano. Fra i pescatori che hanno perso tutto, accorre un novantenne dalla silhouette affilata e fragile come una scultura di Giacometti. Non è un soccorritore come gli altri, ma «Father Ceyrac», come lo chiamano da oltre mezzo secolo negli Stati meridionali del subcontinente. I cui abitanti, di certo, poco o nulla sanno di preciso delle origini francesi del missionario gesuita, tanto quest’ultimo è divenuto uno di loro, parlando perfettamente la lingua tamil e padroneggiando persino il sanscrito, idioma dei principali testi sacri dell’Induismo. Negli anni Trenta, giunto giovanissimo nelle Indie britanniche consumate dal sistema coloniale e da quello delle caste, Pierre Ceyrac (1914-2012) s’immerse pienamente nella cultura e nelle lingue locali, che apprese all’Università di Madras e poi insegnò presso il Collegio Loyola della stessa città. Con una dedizione di ferro e un amore capaci ogni volta di sbalordire chiunque lo affiancasse. Lo stesso amore e la stessa dedizione, portati poi sempre più verso gli ultimi, che ne hanno fatto di decennio in decennio uno dei giganti della carità cristiana del secolo scorso. Non di certo uno dei più noti, almeno in Europa. In diversi Stati dell’India, in particolare nel Tamil Nadu sud-orientale che fronteggia lo Sri-Lanka, il carisma di «Father Ceyrac» è invece paragonato ormai da tempo a quello di Madre Teresa di Calcutta, con cui il gesuita fu in contatto. Oggi ricorre il centenario esatto dalla nascita, avvenuta in una cittadina occitana della regione di Limoges, Meyssac, nella Francia centrale, in una famiglia già fortemente impregnata d’impegno cristiano. Se Pierre Ceyrac decise di entrare a 17 anni nella Compagnia di Gesù e di partire a 22 in India, fu in virtù di una vocazione ardente nutrita anche dall’esempio dello zio Charles, a sua volta missionario gesuita nell’India meridionale.Davanti all’eredità di carità lasciata da Ceyrac, si fatica a credere che un solo uomo abbia potuto fondare o promuovere una lista tanto impressionante di azioni missionarie locali, scuole, strutture sanitarie, lebbrosari, orfanotrofi, progetti idraulici, stradali e agricoli, operazioni di soccorso umanitario di fronte a cataclismi politici o naturali di proporzioni epocali, come il flusso di rifugiati provocato dal genocidio dei khmer rossi cambogiani al seguito di Pol Pot, oppure inondazioni devastatrici come quelle che colpirono nel 1977 la regione di Guntur, a nord di Chennai (Madras). Chi ha lavorato con Ceyrac ricorda il suo carisma, fondato sulla preghiera e su una bontà contagiosa. Fino all’ultimo visse circondato dai poveri, per i quali era sempre pronto a svuotare le tasche. In proposito adottò come motto personale l’iscrizione in sanscrito letta un giorno in un lebbrosario: «Tutto ciò che non è dato è perso!». Sarà poi il titolo di un libro del missionario pubblicato in Italia da Jaca Book, per i cui tipi sono stati tradotti anche Pellegrino delle frontiere e Le mie radici sono in cielo.Sono ancor oggi centinaia di migliaia gli indiani che beneficiano direttamente delle opere lasciate da Ceyrac. Nel 2004, a 90 anni, il gesuita trovò l’energia per promuovere pure il «movimento dei mille pozzi», che portò allo scavo di 1.200 pozzi per l’approvvigionamento idrico di numerosi villaggi. Quest’iniziativa giunse mezzo secolo dopo il lancio dei «cantieri Ceyrac». Nel 1957 un primo progetto mirò a prestare soccorso agli esclusi di Madra, villaggio vicino a Pondicherry. Nel 1964, durante l’ultima fase passata alla guida della All India Catholic University Federation (Aicuf), forte di 80 mila aderenti, il missionario accolse Paolo VI durante un memorabile incontro con gli studenti indiani, nel quadro del Congresso eucaristico di Bombay. Fra i contatti salienti nella biografia del gesuita, oltre a quello con Madre Teresa, spiccano pure le occasioni di confronto diretto con i leader dell’indipendenza, compresi Mohandas Gandhi, il Mahatma, e il premier Jawaharlal Nehru. Nel 2003, ricevette invece in Francia, dalle mani del presidente Jacques Chirac, il premio dell’Académie universelle des cultures.La testimonianza del missionario non si è mai scostata dal contatto quotidiano, gomito a gomito, con gli ultimi fra gli ultimi, senza distinzioni di religione o etnia. In particolare, quegli "intoccabili" delle caste subalterne al centro di innumerevoli programmi di assistenza ed emancipazione promossi lungo il denso e periglioso, ma pure fulgido secolo di «Father Ceyrac».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: