sabato 29 febbraio 2020
La forza del personaggio creato da Perrault e reso celebre in tutto il mondo dal film uscito nel febbraio del 1950 risiede in quella mitezza che contiene la vera gloria. Un archetipo evangelico
Cenerentola

Cenerentola - Cartoons on the Bay - Rai Trade omaggio ufficio stampa Rai

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Venne l’inverno, la neve coprì del suo drappo la tomba della madre; lei, china, piangeva. Poi, con la primavera, il padre prese una nuova sposa. Lei, la bambina, spogliata dei suoi abiti: le fecero indossare una veste da serva, gli zoccoli sui piedi gentili, la palandrana grigia. «Guardate la principessa, com’è agghindata! », le risa di scherno delle sorelle, figlie della matrigna. Lei, mite, china sul focolare portare il secchio d’acqua, accendere il fuoco. Poi, piano, stendersi sulla cenere del camino, stanca delle fatiche, addormentata. Cenerentola, fu il suo nome. Tutti abbiamo in noi quella fiaba, non come una memoria, ma come un sogno.

E poi vediamo il ballo del Principe al castello, lei che pettina le sorellastre agghindate, e sola piange in silenzio. E la fata che le appare, e i suoi doni: la zucca trasmutata per magia in un cocchio dorato, e i topolini della cantina mutati in destrieri, il grosso cavallo che diviene cocchiere, e il cane Tobia d’incanto in lacchè con livrea, la palandrana di colpo si muta in una veste d’argento, e le babbucce in scarpe di vetro. E l’incanto del salone lucente, lei splendida nell’abito da sera accedere al Palazzo nella carrozza fatata. E poi il rintocco di mezzanotte e l’incantesimo che svaniva, lei correre a cambiarsi, rientrare, addormentarsi quieta accanto al camino.

Certo fu la sua bellezza radiosa e il suo corpo che danzava come una fata, furono i suoi occhi e il suo bel viso a incantare il principe, a farla scegliere in sposa. Ma anche altro, il suo segreto, il suo cuore. Il lieto fine: il principe che entrava nella casa, le sorellastre crudeli smascherate, lei che indossava naturalmente la scarpa di cristallo e poi via, sul cavallo, verso le nozze reali: fu amore.

Settanta anni fa la fiaba di Perrault trovava una nuova versione, che tramutava una storia famosa in un capolavoro: dopo Biancaneve del 1937, prima dell’incantevole La bella addormentata nel bosco del 1959 (uno dei supremi film sull’amore, con Un anno vissuto pericolosamente e Il cielo sopra Berlino) che supera il modello letterario, Walt Disney crea un film sulla fiaba dell’umiltà che contiene la vera gloria, su un archetipo evangelico che alimenterà letteratura e sogno fino a Miracolo a Milano di De Sica.

Walt Disney, nato a Chicago il 5 dicembre 1901, fondò il piccolo Disney Studio, che nel giro di pochi anni si sarebbe trasformato nelle imponenti Walt Disney Productions. Nel 1923 ottenne successo con Il Paese delle meraviglie di Alice, ma la grande fortuna nacque nel 1928, quando apparve al mondo il topo Mortimer, presto ribattezzato Mickey Mouse e in Italia Topolino, il quale aprì la scena alle grandi figure di animali antropomorfici del fantasmagorico mondo di Walt Disney, Minnie, Clarabella, Orazio, i cani Pippo e Pluto, e, pochi anni dopo, quell’anatra pigra, bizzosa, collerica e petulante che corrisponde al nome di Donald Duck, Paperino. Disney appare nel momento in cui il cartone animato, dopo una lunga gestazione, sta nascendo, e subito gli conferisce forma, apporta innovazioni tecniche e strutturali fondamentali, lo orchestra, facendolo uscire dalla fase sperimentale e illusionistica, rendendolo verosimile e naturale. Ma verso la fine degli anni Trenta accade qualcosa di nuovo nella mente e di conseguenza nella produzione di Walt Disney.

Dopo avere inventato le sue favole, Disney, con la maturità di un classico, si volse ai classici, e decise di riscrivere le grandi fiabe dell’umanità, le fiabe e quelle opere narrative naturalmente magiche quanto metafisiche – pensiamo al Racconto di Natale di Charles Dickens – il mondo di Andersen, Perrault, Grimm, Le mille e una notte, accanto ai romanzi intrisi di avventura e sogno, Il libro della giungla, l’epopea di Robin Hood. Un’intuizione fulminante: narrare con il linguaggio del cartone animato i classici dell’immaginazione e del sogno di animazione, se tutta la fiaba, come la conosciamo, è il mondo della metamorfosi, del divenire, dell’animazione degli oggetti e della presenza di un’anima universale che soffia negli umani quanto nelle cerve, nei lupi, nelle brocche, nelle fontane, nelle rane che diventano principesse e nelle principesse che diventano rane: la fiaba era il cartone animato in nuce.

Questa produzione che nasce nel 1938 con Biancaneve e i sette nani, primo cartone animato in lungometraggio, e si concentra tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, verrà sistematica-mente proseguita, sapientemente distillata, fino ai giorni nostri. In un decennio Disney affronta una gran parte del nucleo fiabesco occidentale, a cui in seguito affiancherà altre storie, Pinocchio (1940), Alice nel Paese delle Meraviglie (1951), Le avventure di Peter Pan (1953). Con Biancaneve e La bella addormentata nel bosco, Cenerentola fomra una trilogia della giovane donna e della magia dell’amore. Il film, di fama immediata, fu anche un enorme successo commerciale. Ha avuto seguito nel cinema, nel teatro, è impresso nella nostra immaginazione e in quella di grandi dello spettacolo, come Kenneth Branagh, che realizzò la sua bellissima Cenerentola nel 2015. Ma non è finita, non finirà mai.

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