venerdì 7 novembre 2014
​Il cantante inglese sbarca a Milano l'11 con il nuovo album.
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I critici del suo talento vocale dicevano che fosse estensione di quello (immenso) da strumentista: e difatti conquistarono tutti gli Lp incisi dal trombettista Chet Baker come cantante negli anni ’50. Ma col tempo, del grande e “maledetto” artista scomparso nell’88 era rimasto sul mercato solo il repertorio strumentale. Va quindi accolta con favore la chicca in uscita per Valentine Records e distribuita qui da Egea: un triplo Cd (Chet Baker Sings) che racchiude rimasterizzate tutte le canzoni interpretate da Baker, in tutto 62, alcune delle quali mai proposte su Cd. L’opera va dallo standard Spring Is Here sino alle sessioni con orchestra arrangiata da Morricone in italiano, permettendo anche di riscoprire il Chet che in Italia incise spartiti propri con testi nella nostra lingua, nonché Arrivederci di Bindi per un musicarello con Mina e Celentano. Il tutto suonando con maestri del
nostro jazz, Giulio Libano, Gianni Basso, Franco Cerri: diretto anche da Piero Umiliani ed Ezio Leoni, colui che lanciò lo stesso Celentano, Dallara e Jannacci.
(A.Ped.)
 
 
«Siete venuti per Yusuf o per Cat Stevens?», ha chiesto l’autore di
Moonshadow martedì sera al popolo euforico dell’Eventim Apollo di Londra, prima tappa di quel cammino che l’11 novembre lo depositerà sul palco del Forum di Assago. «Beh, questa sera li avrete entrambi». E così è stato. Qualunque sia il suo nome d’arte, Steven Demetre Georgiou rimane uno dei più singolari autori del folk-pop inglese. Come singolare fu pure la sua conversione del ’77, quando Steven-Yusuf rischiò di annegare davanti alla spiaggia di Malibù e, salvato dalle onde, decise di votare la sua vita ad Allah. Rimase aggrappato al nomignolo che tanta fortuna gli aveva portato fino a quel momento per altri due dischi, Isitzoe Back to the Earth, ritirandosi poi dalle scene per abbracciare la religione islamica con una nuova identità e un nuovo fervore d’animo. Dopo il grande passo, avrebbe abbandonato la chitarra per ventisette anni, che oggi liquida ironicamente parlando di «una breve pausa».
 
Il nuovo album Tell’em I’m gone (Ditegli che me ne sono andato), il terzo a firma Yusuf nell’arco di otto anni, realizzato con i preziosi consigli del produttore Rick Rubin, trova spazio per intero fra la trentina di brani in repertorio, caricandolo di retaggi blues davanti ai quali alcuni fedelissimi di Cat Stevens potrebbero storcere la bocca, ma questo è l’uomo di oggi, che per altro in scena non lesina riferimenti al (glorioso) passato inanellando successi su successi a cominciare da
Wild world, Moonshadow, The first cut is the deepest («Alcuni non sanno che l’ho scritta io» dice, riferendosi al successone che ne fece a suo tempo Rod Stewart), una versione stomping di If you wanna sing out, sing out, Oh very young, Morning has broken e su su fino alle inevitabili Father & son e Peace train. Tutto senza tralasciare strizzate d’occhio ai Beatles (All you need is love) e a Sam Cooke (Another saturday night).
 
D’altronde con un team di musicisti blues come quelli raccolti tra i solchi di Tell’em I’m gone  – Richard Thompson, Charlie Musselwhite, Bonnie “Prince” Billy e il gruppo tuareg dei Tinariwen – difficile puntare la prora verso altri orizzonti come dimostra pure il pugno di cover inserite del disco; You are my sunshine nella versione di Ray Charles,
Dying to live di Edgar Winter, The devil came from Kansas
dei Procol Harum, Big boss man di Jimmy Reed. «Questo è
l’album che meglio realizza l’equilibrio tra il talento e la fede», spiega il cantante, 66 anni, nelle interviste. «Ho fatto un disco blues perché quella è una musica rivoluzionaria. Un canto che faceva sentire liberi gli schiavi e li aiutava a sopportare una vita di privazioni. E poi cosa deve mai essere l’arte se non lo slancio verso libertà e bellezza?». Oggi Yusuf (che in italiano significa Giuseppe) vive con la moglie e i cinque figli a Dubai emblema di un Islam moderno e, secondo alcuni, occidentalizzato. Ma c’è voluto del tempo perché la sua scelta di fede riuscisse a non farlo tirare per la giacca dai nemici dell’Islam come dai musulmani estremisti. «Quando ero Cat Stevens non sono mai stato perseguitato dai giornalisti come oggi», ammette l’autore di
Foreigner, introdotto lo scorso aprile da Art Garfunkel nella
Rock’n’Roll of Fame. «Sono preso d’assalto da qualsiasi cronista che abbia qualcosa da recriminare contro il mondo musulmano».
Editing floor blues, un pezzo del nuovo album, punta il dito contro il mondo dei media  («Oh boy! / Non avevo mai detto questo! / Poi è venuta fuori la verità / ma loro non hanno mai pubblicata! / Proprio come Socrate, l’uomo greco / cadde in ginocchio
/ disse, Signore perdonali per favore») in relazione soprattutto al
turbillon mediatico piovuto sulla testa del cantante in seguito alle opinioni espresse al tempo dell’arrivo in libreria de I versetti satanici
di Salman Rushdie.
 
«La stampa ebbe modo di dipingermi  come un sostenitore della fatwa emanata dall’Iran contro Rushdie. In realtà io non avevo mai sostenuto quella misura. Nessuno potrebbe mai chiedere a un cristiano di negare uno dei Dieci Comandamenti e allo stesso modo io non potevo negare che il Corano, proprio come il Levitico della Bibbia proibisce la blasfemia e la giudica una offesa gravissima, a meno che non sia seguita dal pentimento. Ma ciò che molta gente, inclusi molti musulmani, non riconoscono è che il Corano chiede continuamente ai credenti di pentirsi, di mantenere alte le leggi della civiltà e di non farsi giustizia con le proprie mani». Considerata un tempo una distrazione dello spirito, la musica è tornata al centro della vita di Yusuf. E la sua voce, come dimostrato lo scorso inverno a Sanremo, ha ancora la forza e la freschezza per far sognare intere generazioni. E pure quelli che al blues terreno di Yusuf continuano a preferire i mondi sognanti di Cat Stevens.
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