venerdì 27 settembre 2019
Nel libro di Molinelli, “Cuori partigiani”, la storia del calcio italiano si intreccia con quella della Resistenza. Impegno e azioni temerarie, dal portiere Peruchetti al bomber granata Raf Vallone
Michele Moretti (terzo da sinistra), difensore della Comense, si rifiuta di fare il saluto romano (Archivio Enrico Levrini)

Michele Moretti (terzo da sinistra), difensore della Comense, si rifiuta di fare il saluto romano (Archivio Enrico Levrini)

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Resistere, combattere su un campo di calcio, e poi lassù sulle colline, asserragliati tra i boschi assieme al Partigiano Johnny, così come fece l’estremo difensore, anche delle porte, Giuseppe Peruchetti. Bresciano di Gardone Val Trompia, classe 1907, Peruchetti era uno dei calciatori partigiani delle divisioni piemontesi che prima di entrare a far parte della Brigata Belbo 2ª Divisione Langhe, la stessa di Beppe Fenoglio, aveva militato nelle fila del Brescia e nell’Ambrosiana Inter con il grande Peppino Meazza. E infine, in pieno periodo bellico, dal 1941 al ’44, quello che per il popolo degli stadi era noto come la “Pantera nera” aveva difeso anche i pali della Juventus.

«Dopo la vittoria del secondo titolo con l’Ambrosiana, Peruchetti lasciò la porta per diventarne l’allenatore, insieme a Italo Zamberletti, ma dopo un solo anno in panchina, prese la clamorosa decisione di tornare a giocare. Un caso probabilmente unico nella storia del calcio italiano». A ricordare questo record della “Pantera nera”, assieme a una miriade di storie di cuoio - molte ingiustamente scivolate nell’oblio - è Edoardo Molinelli nel suo libro Cuori partigiani (Hellnation Libri. Pagine 244 euro 18,00). Peruchetti per la sua azione pagò con il carcere duro, «fu arrestato dagli Arditi il 28 novembre del 1944», ma alla fine della guerra poté raccontare quella straordinaria e temeraria parentesi nella Brigata Langhe a Gloria Bruno, la donna che sposò con gli auguri recapitati alla coppia da Fenoglio e da Paolo Farinetti, comandante della Brigata Matteotti. Un altro reduce illustre della Resistenza piemontese contro i Nazifascisti fu Raf Vallone. Il futuro “bello” del cinema, era salito a Torino dalla natia Tropea per entrare nei Balon Boys, i giovani granata la cui squadra recava il nome del campione del Torino Adolfo Baloncieri che l’aveva fondata. Il 14enne Vallone, centravanti di sfondamento, con i Balon Boys vinse lo scudetto giovanile - campionato Ulic - del 1930 e del ’31.

Il 26 maggio del 1935 il poderoso Raf fece il suo esordio in Serie A e tra un nugolo di campioni, di quello che poi sarebbe passato alla storia come il Grande Torino, nella stagione 1938-’39 riuscì a collezionare 15 presenze e a realizzare 3 gol. Ma allo scoppio della guerra venne arruolato, militare a Tortona e dopo l’armistizio «Vallone – scrive Molinelli – entrò nella Resistenza grazie all’amicizia con Vincenzo Ciaffi, dirigente di Giustizia e Libertà». Un impegno sentito quanto pericoloso che lo portò all’arresto. Rinchiuso nel carcere di Como il bomber che sapeva difendersi a sportellate in campo ed era dotato anche di una buona corsa si diede alla fuga gettandosi nel lago. Una scena degna di un film, come quello che scrisse sulle mondine lavorando a un’inchiesta come giornalista all’Unità di Torino. Quel reportage Vallone lo realizzò su richiesta del suo caporedattore Davide Lajolo, detto “Ulisse”, che poi lo mise in contatto con il regista Giuseppe De Santis che portò sul grande schermo quel capolavoro cinematografico che è Riso amaro.

Da quel momento il bel Raf il gioco del calcio lo praticò solo al cinema interpretando Gino Bardi, l’attaccante de Gli eroi della domenica, pellicola del 1952 diretta da Mario Camerini. “Storia d’amore e di Resistenza”, potrebbe essere il titolo di un film sulla vita di Edoardo Mandich, detto “Edi”. Uno dei talenti della Fiumana, squadra che tra nativi o calciatori d’adozione della città di frontiera, prestò ben sette tesserati alla lotta partigiana. Oltre al portiere Mandich, questi erano: Alceo Lipiszer, i fratelli Claudio e Ottorino Paulinich, Bruno Quaresima, Nevio Scalamera e Icilio Zuliani. Un tetro primato quello dei sette fiumani che dal 10 settembre del 1943 (giorno in cui Hitler firmò l’ordine di costituzione della Operationszone Adriatisches Kunstesland - Ozak -) al novembre del ’44, vennero deportati nei campi di concentramento nazifascisti. Mandich, fiumano doc, classe 1924, a diciotto anni era stato acquistato dalla Pro Patria: «Nell’estate del ’43 ormai in procinto di esordire in prima squadra, era stato arruolato nella Regia Marina e si era trasferito a Venezia. Qui fu sorpreso dalla Gestapo in giro per la città il giorno stesso dell’armistizio e venne immediatamente arrestato», annota Molinelli. Deportato nel lager di Hildesheim entrò nella squadra dei lavoratori forzati del lager: 12 massacranti ore al giorno passate ad estrarre la glicerina dallo zucchero. L’amore per una prigioniera polacca, Marianna Walkowska, leniva la fatica e gli orrori perpetrati quotidianamente dal carnefice nazista dinanzi agli occhi di Edi. Mandich scampò miracolosamente alla “strage di Hildesheim”: 200 internati italiani giustiziati per il furto dello zucchero da una fabbrica locale. Così Edi e Marianna, il 7 aprile del 1945, dopo la liberazione degli americani, riuscirono a scappare in Italia. «Un lungo viaggio che li portò a Campello sul Clitunno, in Umbria, dove si era stabilita la sorella di Mandich», scrive Molinelli. In Umbria il “mancino d’attacco” di Fiume concluse la sua carriera, giocò con la Ternana in cui «ebbe l’onore di dividere lo spogliatoio con il campione del mondo Gino Colaussi».

L’unico a non tornare tra i sette deportati fiumani fu l’antifascista della prima ora, l’olimpico Zuliani che da giovane aveva praticato tutti gli sport (tennis, atletica, canottaggio) per poi diventare, anche lui, un piccolo eroe della domenica calcistica. Quando l’11 aprile del ’45 le truppe alleate liberarono il campo di Buchenwald in cui era prigioniero trovarono il veloce attaccante della Fiumana ormai ridotto a una larva, incapace di camminare e stremato dagli stenti e dalla dissenteria si spense il 9 maggio, a soli 36 anni. Ne aveva appena 34 di anni Bruno Neri, il “poeta” della mediana caduto eroicamente da partigiano della Brigata Ravenna (nome di battaglia il “Berni”) nello scontro a fuoco con i tedeschi all’Eremo di Gamogna, il 10 luglio 1944. Calciatore assai atipico, specie per i parametri odierni, Neri era iscritto all’Istituto di Studi orientali di Napoli e dopo l’allenamento, nelle stagioni in cui si spolmonava in mezzo al campo per la Fiorentina del marchese Ridolfi correva al Caffè letterario delle Giubbe Rosse, dove ai tavoli sedeva in compagnia di Montale, Landolfi, Carlo Bo e Delfini. Forse nessuno di quell’intellighenzia fiorentina era presente il 10 settembre 1931 all’inaugurazione dello stadio Giovanni Berta (dedicato al giovane squadrista ucciso dai comunisti nel 1921) quando l’azzurro Bruno Neri compì il “gran rifiuto”: davanti alla tribuna gremita dei gerarchi fascisti: unico dei calciatori schierati a centrocampo a non fare il saluto romano in onore del regime fascista. Quel gran rifiuto, come si legge in Cuori partigiani e come si vede nella preziosa documentazione fotografica a corredo del volume, venne compiuto per ben due volte da Michele Moretti, forte difensore della Comense. «Il tempo non va via / si è fermato a centrocampo / stupito che ci sia / chi tiene il braccio lungo il fianco/. Qualcuno mette a fuoco / scatta la fotografia / di un cuore in fuorigioco», canta Filippo Andreani nella sua Michele non saluta. Gesto fin troppo sospetto per gli uomini di Mussolini.

E del Duce, il partigiano Morettti, nome di battaglia Pietro Gatti nella “Puecher”, distaccamento della 52ª Brigata Garibaldi, secondo alcune fonti storiche (da lui sempre smentite) potrebbe addirittura essere stato il “giustiziere”, al posto del “Colonnello Valerio”, Walter Audisio. Fu Moretti dunque a premere il grilletto del mitra Mas 7,65 lungo e ad uccidere Mussolini il 28 aprile del 1945? Mistero, ovviamente all’italiana. Di certo rimangono quegli scatti di dissidenza, da uomo libero. «Sono Libero di nome e di fatto », rivendicava a petto in fuori l’anarchico centrocampista Marchini che dalla Lucchese volò in azzurro per disputare i Giochi di Berlino 1936. Di quell’unico oro olimpico conquistato dalla Nazionale sotto gli occhi di Hitler, Marchini fu assoluto protagonista in campo, specie nella finale vinta contro l’Austria: al momento del saluto fascista, Libero finse un prurito alla coscia sinistra e non alzò il braccio. Un gesto premeditato, reso immortale da un’altra foto che in tempi di fascismo dilagante commuove, così come il sacrificio del sottotenente Armando Frigo, gloria vicentina e cuore viola. Fucilato dai nazisti alle Bocche di Cattaro, «Frigo morì a Crkvice, 10 ottobre 1943, da calciatore – conclude Molinelli – e frugando nella sua giacca insanguinata, i partigiani slavi trovarono un solo documento: era la tessera di centrocampista della Fiorentina».

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