venerdì 2 marzo 2018
L’8 marzo compie 80 anni lo storico telecronista Rai. Memorie di un italiano vero dalla sua Cormons dove «il calcio riportò la pace»
Bruno Pizzul. Alla soglia degli 80 anni

Bruno Pizzul. Alla soglia degli 80 anni

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«Sto facendo un servizio per “Easy Driver” la trasmissione sulle automobili di Rai 1. E hanno scelto uno che non ha mai avuto la patente in vita sua», dice un divertente e divertito Bruno Pizzul. La grande “voice” della telecronaca calcistica è da sempre un ciclista metropolitano. Pedala ancora il Bruno nazionale, e lo fa verso il traguardo delle 80 primavere, sbocceranno l’8 marzo. Fino a ieri Pizzul pedalava in sella alla sua bicicletta per le vie di Milano: tappa obbligatoria dalla residenza di via Losanna, fino alla sua «seconda casa », la Rai di corso Sempione. «C’ho lavorato 35 anni in Rai, agli inizi dividendo la stanza con Carlo Sassi, Heron Vitaletti e quel battitore libero di Beppe Viola. Lì dentro entrava il mondo: un giorno toccava a Gianni Rivera appena sceso dal tram, l’altro all’attore Jean-Louis Trintignant in pausa pranzo dal set che portava vino e formaggio francese per l’assaggio amicale ». Gergo ricercato. Un eterno «dritto per dritto», tondo e sincero come un bicchiere di Collio della natia Cormons dove Bruno è tornato per il riposo del guerriero microfonato. Qui, dove sono le vigne a tracciare il confine con la Slovenia, i sogni e le passioni del giovane Pizzul hanno sibilato il fischio d’inizio di una partita che è ancora tutta da rivivere, e da ascoltare. «Non ho mai reciso il cordone con la mia terra e dopo oltre quarant’anni di Milano, città che stimo e che mi ha dato tanto, con mia moglie abbiamo deciso di tornare a vivere qui, a riparo da quella frenesia alla quale peraltro non mi sono mai piegato».

Ritorno alle origini, alle stradine delle prime partite, con quel pallone che da bambino fu sinonimo di pace. «Nei quaranta giorni di terrore sotto la minaccia di Tito (1 maggio-12 giugno 1945), ricordo che in paese le famiglie si erano divise, vivevano nel sospetto e nel rancore reciproco delle opposte fazioni pro e contro la Jugoslavia. Un uomo di dialogo e illuminato come don Rino Cocolin – futuro arcivescovo di Gorizia – capì che noi ragazzi dovevamo rimanere uniti e per questo ci lanciò un pallone scucito e pieno di gobbe. Era l’unico pallone di Cormons, e i genitori vedendo i figli giocare felici placarono il loro odio». In quelle partite amichevoli vide la fine della guerra e l’inizio di una gioventù proiettata in città. «Da Cormons, dove cominciai a giocare con la squadra parrocchiale, la Cormonese, andai a studiare al liceo Stellini di Udine. Un liceo elitario in cui quelli come me che si dividevano tra il calcio e il latino non erano visti di buon occhio, così optai per i più elastici professori del liceo Dante Alighieri di Gorizia che apprezzavano il mio doppio passo, sport e scuola, e mi portarono al diploma». Il passo felpato e la mente fine del centromediano che dopo il militare – negli alpini – sbarcò a Catania per giocare e studiare. «In quella che allora era la “Milano del sud” ero iscritto all’università e in campo andavo assieme ad altri cinque friulani. Il viareggino Michelotti lo chiamavamo il “terrone”, era il più meridionale della squadra. Il giovane cronista locale Candido Cannavò quando veniva allo stadio per le interviste di rito sacramentava: “Noi catanesi siamo stati colonizzati da tutti, dai punici ai francesi, adesso ci mancavate solo voi barbari del nordest”». Razza furlana, un tempo fucina di talenti. «Nella vicina San Lorenzo Isontino, paese che non arrivava a mille abitanti, una stagione poterono vantare sei giocatori in Serie A. Oggi quella vena talentuosa si è inaridita, nel calcio come nel basket. Colpa dei telefonini e della vita virtuale: i ragazzi sono diventati dei campioni nell’abbandono dell’attività sportiva».

Il giovane Bruno giocava a calcio per «puro divertimento», si laureò in Giurisprudenza e una volta contro la Juventus riuscì persino a fermare il fuoriclasse Omar Sivori. «Beh più che fermare lo marcai abbastanza bene. E la cosa me la ricordò Omar una sera che si presentò alla “Domenica Sportiva” con una foto in mano chiedendomi meravigliato: “Bruno, ma questo eri tu? Quanti tunnel ti feci?”... E io: se è per questo neanche uno. E il solito Sivori concluse: “Se lo sapevo che diventavi Pizzul il giornalista te ne avrei fatti 40 di tunnel” ». Sorride Bruno ripensando a quegli anni da “clamoroso al Cibali” in cui dal campo si ritrovò, microfono in mano, in tribuna stampa: assunto in Rai superando uno degli ultimi concorsi, anno 1969. Debutto in telecronaca in Coppa Italia: Bologna-Juventus, sul neutro di Como. «Memorabile. Quella mattina alle 10 ero pronto per andare a Como, ma il caro Beppe Viola mi fa: “Dove vai Bruno a quest’ora? Como è solo a 30 chilometri, pranziamo insieme e poi ti accompagno”. Lauto menù con annessa bevuta, peccato che rimanemmo imbottigliati nell’ingorgo dei tifosi. Arrivai in postazione con affanno, le squadre erano già in campo da quindici minuti...». Inizi avventurosi da Messico e nuvole. Protagonista al Mundial del ’70 messicano, emozionato al commento di Germania-Inghilterra e testimone diretto del passaggio dall’era Carosio a quella di Martellini. «Nicolò Carosio in Rai mi accolse con distacco. “Un solo consiglio ti do – mi disse –. Fatti sempre vedere con un bicchiere di vino o di whisky in mano, perché quello del telecronista è un mestiere in cui prima o poi l’errore lo fai, e se è grave, allora potrai sempre dire di aver bevuto”. Nando Martellini è stato un fratello maggiore, professionalmente gli devo tutto. Sandro Ciotti? Era stato lui a coniare quel “clamoroso al Cibali”, Sandro era un virtuoso del linguaggio».

In quella squadra unica e irripetibile di voci nazionalpopolari c’era anche il “pio” Enrico Ameri. «Enrico era un sanguigno ma ovunque si trovava era sempre alla ricerca di una chiesa. Una domenica a Göteborg, io lui e Martellini, volevamo andare alla messa. Con Nando stavamo per entrare in una chiesetta di culto protestante, Enrico non ne volle sapere, si rifiutò, urlandoci: “Dove andate? Eretici...” ». La più grande “eresia” rimane la finale insanguinata di Coppa dei Campioni, Juventus-Liverpool, 29 maggio 1985 a Bruxelles. «Sentii addosso tutta la responsabilità di comunicare al telespettatore, che magari aveva un figlio proprio lì allo stadio Heysel, la tragedia delle 39 vittime che si stava consumando in diretta. L’istinto mi diceva di chiudere anticipatamente il collegamento e di tornarmene dalla mia famiglia...». La Nazionale per Bruno è stata una famiglia, specie quella campione del mondo dell’82. «In quell’Italia di Bearzot, oltre a Enzo e il suo vice Cesare Maldini c’era un alto tasso di friulani: Zoff, Collovati, il professor Vecchiet, Calligaris e Trevisan ».

Friulano di Pieris è anche l’amico di sempre, Fabio Capello. Uno dei quattro amici al Bar Sport di Cormons per le mitiche partite estive a scopa d’asso. Delle tante figurine Panini conosciute in carne e ossa e raccontate nei febbrili 90 minuti in telecronaca glie ne restano poche di quelle «apprezzabili» anche fuori dal campo. «Gianni Rivera per quella sana ingenuità da eterno idealista. Per certi versi gli somiglia molto Francesco Totti. Ho amato tanto Roberto Baggio, trasmetteva il piacere del gioco. Renzo Ulivieri mi ha raccontato che quella domenica che al Bologna lo mise in panchina la sera tornò a casa dalla sua anziana mamma, la quale quando suonò gli rispose: “Io non faccio entrare uno che manda Baggio in panchina”». Se la ride Bruno, come quando ricorda il collega Mario Poltronieri «uno dei tanti personaggi incredibili di una Rai che non c’è più. Una volta Mario in un albergo di Torino fece arrivare i carabinieri: la donna delle pulizie era svenuta trovando un pitone nella sua stanza. Credevano che il pitone fosse scappato dallo zoo... Mario rientrato in albergo spiegò candido agli agenti: “Il serpente è mio, l’ho visto in un negozio e l’ho comprato. Un affare, l’ho pagato 60 mila lire al metro». Ricordi di una vita vissuta alla giusta distanza, con quella morbida ed elegante pacatezza che gli riconosce Enrico Cucchi in prefazione alla biografia di Francesco Pira e Matteo Femia Bruno Pizzul. Una voce nazionale( Lupetti). “Febbre a 80”, senza rimpianti. «Provo solo nostalgia per quei giovani di una volta che sul tram si alzavano per lasciare il posto a un anziano o alla donna incinta... Mi manca il sorriso e l’ironia di Beppe Viola e di tutti quelli che come me hanno avuto il privilegio di occuparsi di calcio, convinti che in fondo fosse solo un gioco dentro quella sfida più grande che è la vita».

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