giovedì 15 maggio 2025
L’autore olandese nel suo ultimo libro racconta lo Spaander di Volendam, rifugio di artisti come Picasso e Signac: «Un luogo che descrive un’Europa di aperture»
Lo scrittore olandese Jan Brokken

Lo scrittore olandese Jan Brokken - Merlijn Doomernik

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Non lontano da Amsterdam, a Volendam, sospeso tra terra e cielo, dighe e campi, c’è l’hotel Spaander. Un luogo dove, a partire da fine Ottocento, si sono incrociati migliaia di artisti da tutto il mondo, segnando la storia dell’arte moderna. Ma cosa li ha attratti in questo luogo? E in che modo le loro vicende si legano alla grande Storia degli ultimi due secoli? A raccontarlo è Jan Brokken, scrittore e viaggiatore olandese (candidato al Premio Strega Europeo) - noto per la sua capacità di raccontare le vite di personaggi fuori dall’ordinario e i grandi protagonisti del mondo letterario e musicale - che apre il programma dedicato ai Paesi Bassi, Ospite del Salone del Libro 2025, con la presentazione del suo ultimo libro La scoperta dell’Olanda (Iperborea, pagine 380, euro 21,00) giovedì 15 alle 15.45 in Sala Azzurra con Alessandro Zaccuri.

Cosa l’ha ispirata a scrivere un libro sulla storia di Volendam? Qual è stato l’aspetto più sorprendente emerso durante le ricerche?

«Il fatto più sorprendente è che questa storia fosse completamente sconosciuta. Conosciamo le storie di alcune colonie di artisti in Europa, come Barbizon, Pont-Aven in Bretagna, Skagen in Danimarca, ma non avevamo mai sentito parlare dell’hotel Spaander a Volendam. Ci sono stato per la prima volta nel 1980, 45 anni fa. Ero lì per intervistare un poeta olandese che aveva scritto una poesia su un pittore norvegese morto proprio in quell’hotel. Poi, nel 2020, durante il periodo del Covid, ho letto sul giornale che il fondatore dell’hotel era fallito e che l’albergo aveva chiuso i battenti. E mi sono chiesto: che fine hanno faranno tutti quei quadri? Perché quando ci sono stato la prima volta, mi aveva colpito profondamente: c’erano dipinti ovunque, nelle sale, sulle scale, nelle stanze, perfino nei bagni. Non parliamo di decine, ma di circa 1400 dipinti. E allora ho cominciato a investigare guidato da una domanda: che fine hanno fatto quelle opere?».

Quindi da lì è partita la ricerca. E cosa ha scoperto?

«Ho scoperto che questa colonia di artisti è esistita per oltre 50 anni, dal 1881 al 1932. Quello che mi ha colpito di più è stato il numero impressionante di artisti passati da lì: più di 1900, e oltre 1500 erano stranieri. Venivano dalla Gran Bretagna (più di 430), dalla Francia, dalla Germania (180), dai Paesi Scandinavi, dagli Stati Uniti (oltre 200), dal Giappone, dalla Russia, da Vienna (più di 50). Mi ha colpito che quasi nessuno conoscesse questa storia. E poi, quando ho iniziato a scriverla, era un momento difficile per l’Europa, pieno di crisi, populismi, misure contro gli immigrati. Eppure nella storia dell’hotel Spaander ho visto qualcosa di diverso: tolleranza, umanità, un’Europa di scambi, un’Europa prima dell’Unione Europea politica ed economica. È una storia che parla d’arte questa, ma anche di comunicazione, convivenza, scambio culturale tra persone molto diverse, di nazionalità, religione e abitudini, tutte insieme in un ambiente di simbiosi. Una storia profondamente europea, fatta di diversità e valori condivisi».

Il titolo del libro cita l’Olanda, ma lei appunto, in qualche modo, racconta anche di Francia, Giappone, Russia… Quest’anno i Paesi Bassi sono ospiti al Salone del Libro. Cosa ci dice il suo libro sull’identità olandese?

«In effetti è stato speciale per me scrivere questo libro sull’Olanda, il mio Paese. Ho viaggiato molto, ho scritto libri sulla Russia, sul Giappone, sull’Africa, i Caraibi, il Sud America. Ma ora ho voluto raccontare l’Olanda non tanto con gli occhi dell’olandese, ma attraverso lo sguardo degli artisti stranieri che venivano qui e rimanevano affascinati da tutto questo. Ecco perché il titolo è La scoperta dell’Olanda, perché questi artisti, alcuni davvero grandi, come Picasso, scoprivano qualcosa di unico qui: la luce, la gente, l’atmosfera. Molti di loro non si fermavano solo per pochi giorni: c’erano artisti che restavano addirittura per anni. Un pittore svedese vi ha soggiornato più di tre anni, un altro francese ben 17 anni. Il viennese Ferdinand Schmutzer è venuto a Volendam 28 volte, ogni estate e ogni autunno per anni. Questo dimostra il profondo legame che tutti loro avevano con l’Olanda. Per molti artisti britannici e americani, questa era un’Olanda arcaica, intatta, quasi sospesa nel tempo, in contrasto con i loro Paesi in piena industrializzazione. Fino al 1910 Volendam era isolata, raggiungibile solo via acqua, a pochi chilometri da Amsterdam, ma lontanissima come stile di vita».

Restando sul Salone del Libro: il tema di quest’anno invita a pensare alle parole come strumenti di incontro e ascolto. Nel suo libro lei dice che «scrivere è vivere mille vite». Cos’è per lei la scrittura?

«Scrivere è scoperta. Ogni mio libro è un viaggio in un mondo nuovo. Quando inizio, conosco solo una piccola parte dell’argomento. Scopro scrivendo. Per me è questo la scrittura: scoprire un nuovo mondo e portare con me il lettore. Voglio dire al lettore: “Ehi, guarda cosa ho scoperto! Guarda qui, questo è nuovo, è strano, è incredibile!”. Scrivendo, vivo vite diverse: cerco di immedesimarmi in artisti, architetti, musicisti, pittori, compositori, cerco di immaginare la loro vita, di capirli, e in questo modo vivo le loro vite, anche solo per un po’».

Prima si parlava di Europa. Come stanno oggi la letteratura e l’arte olandesi? E qual è il loro contributo al dibattito culturale europeo?

«La nostra è una letteratura giovane. È nata nel XIX secolo, ma ha cominciato a fiorire nel XX. Non ha la tradizione lunga e potente della letteratura italiana, francese o inglese, ma è molto vitale. Quello che apprezzo è che si è fatta sempre più aperta al mondo. Lo scrittore che è stato a lungo il mio punto di riferimento – e non è un autore olandese puro – è Cees Nooteboom. Lo considero il mio maestro. Credo che la forza delle letterature del nord Europa, Olanda e Scandinavia, sia questa apertura, che può parlare bene anche ai lettori italiani, francesi o spagnoli».

Come ha scelto i dipinti e le illustrazioni da inserire nel libro?

«Ho cercato di mostrare la varietà di espressioni artistiche che si trovavano in questo hotel. A differenza di Barbizon o Skagen, che avevano un’identità stilistica definita (impressionismo, naturalismo), all’hotel Spaander c’era una grande varietà di stili: impressionismo, post-impressionismo, espressionismo, simbolismo, perfino i primi passi dell’arte astratta. E poi c’era una cosa molto speciale: la presenza di moltissime donne pittrici. Alla fine del XIX secolo era molto difficile per le donne viaggiare, dipingere, trovare spazi dove essere accolte, esporre, ma nell’Hotel Spaander erano le benvenute. Più di duecento delle pittrici straniere erano donne. È straordinario, e nel libro ho voluto mostrare anche i loro lavori».

Quali storie o artisti l’hanno colpita di più?

«Uno che amo molto è Paul Signac: era un uomo di grande apertura mentale, e anche un ottimo marinaio, qualità che per noi olandesi è significativa. E poi c’è una storia toccante: quella del pittore belga Henry van de Velde. Era giovane, già affermato, e venne in Olanda. Visitò il fratello di Vincent van Gogh, Theo, e vide i quadri di Vincent. Ne rimase così colpito che decise di smettere di dipingere, pensando: “Questa è genialità pura, io non potrò mai arrivarci”. Smise e diventò un architetto famoso. Ma quella decisione, quel momento, è qualcosa di davvero commovente. Il libro è pieno di storie come questa».

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