venerdì 15 ottobre 2021
Il portiere dell’Inter anni ’70-’80, vice di Zoff al Mundial dell’82, si racconta nel libro “In presa alta”: «La gratitudine e la vera amicizia sono i grandi valori che ho imparato dal calcio»
Ivano Bordon, portiere dell’Inter degli anni ’70-’80, in presa alta in un derby con il Milan

Ivano Bordon, portiere dell’Inter degli anni ’70-’80, in presa alta in un derby con il Milan - / Archivio Ravezzani

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Il talento è umile e per uno nato portiere, come Ivano Bordon, talento e umiltà ne fanno da sempre l’uomo della porta accanto. Bordon ha gli occhi chiari e l’anima trasparente dei grandi campioni della sua Inter anni ’70-primi anni ’80, i fratelli nerazzurri Giacinto Facchetti e Lele Oriali. Quest’ultimo, l’uomo da “una vita da mediano” ha scritto una prefazione all’autobiografia di Bordon, In presa alta. Le parate di una vita di un portiere gentiluomo d’altri tempi (A cura di Jacopo Dalla Palma. Caosfera. Pagine 225. Euro 16,00) pregna d’affetto per il suo Ivano da Marghera. «Per forza, sono il padrino di battesimo di sua figlia Veronica», dice con un sorriso timido il portierone nerazzurro. Un tuffo nella memoria il libro che celebra le vittorie che lo portarono sul tetto del mondo, vice di Dino Zoff al Mundial di Spagna ’82, ma anche le sconfitte dal retrogusto più amaro, come il 7-1 di Mönchengladbach (ottavi di Coppa dei Campioni 1971-’72). Partita poi ripetuta per la lattina che colpì Boninsegna e il 20enne Bordon entra nella storia: a Berlino alza la saracinesca e l’Inter passa ai quarti. Ad addolcire le uscite a vuoto, da 46 anni in qua, ci ha pensato l’unica donna sempre al suo fianco, Elena: «La moglie di un calciatore è fondamentale nei momenti positivi, ma specialmente in quelli negativi in cui a volte perdi il baricentro», dice Bordon compiendo un tuffo nel passato, a partire da quella voglia matta di tuffarsi dai campetti «dietro casa senza un briciolo d’erba, la spiaggia di Jesolo, i campi dell’oratorio di Sant’Antonio di padre Agostino Faedo, il prete di Chiampo, vicino a Vicenza». Da lì, da quei campetti di un Veneto segreto, al provino in casa Inter, alla Pinetina. Un esame vissuto con il nodo in gola dal ragazzo di provincia, ma la porta di Milano che gli si spalancò coincise con quella interista da difendere per oltre un decennio.

Un viaggio sentimentale calandosi in punta di piedi in una nuova dimensione. Ma ad accompagnarlo, c’era un “terzo fratello” interista che se ne è andato da poco, Mauro Bellugi.

Con Mauro siamo cresciuti nel settore giovanile, abbiamo debuttato assieme in Serie A e con lui ho condiviso il mio primo appartamento milanese, in viale Famagosta al civico 19. Bellugi era l’uomo spogliatoio, il ragazzo che tirava sempre su il morale del gruppo suonando la chitarra o raccontando quelle barzellette che annotava su un taccuino che apriva nelle serate speciali. Quanto mi manca l’ allegria di Mauro...

Restiamo in zona amarcord: LidoVieri che alla Domenica Sportiva del 27 maggio ’72, giorno dell’11° scudetto nerazzurro, lo nomina suo erede sul campo.

Quella sera mi spiazzò in diretta tv. «Bordon? I prossimi dieci anni saranno i suoi», disse Lido che mi aveva già elogiato altre volte ma quella sua investitura pubblica mi riempì d’orgoglio, mi diede la forza per migliorare e diventare il portiere che sono stato. Vieri è stato un maestro, osservandolo ho imparato tanto e di questo gli sarò sempre grato.

Non sarà grato invece fino in fondo al ct Enzo Bearzot che, quattro anni dopo il Mundial dell’82, con Zoff in pensione e lei ancora al top gli preferì Galli, Tancredi e il suo erede interista, Zenga. Un destino affine a quello del suo collega Ricky Albertosi.

Albertosi nel ’78 che non sarebbe andato in Argentina lo seppe molto prima. I giornali avevano dibattuto in anticipo il suo caso, lasciato a casa per via del dualismo difficile con Zoff. Io invece, nell’86 che non ero stato convocato per il Messico l’ho scoperto per caso ascoltando la radio, mentre viaggiavo in auto con Elena. Fu davvero un colpo a sorpresa, ci sono rimasto troppo male...

Ma con il “Vecio” Bearzot poi vi siete chiariti?

L’ho rincontrato nel ’91 a Cremona alla partita d’addio al calcio di Antonio Cabrini. A un certo punto mi sento toccare sulla spalla, mi volto ed era Bearzot che con la pipa in bocca mi fa: «Scusa Ivano per quella volta...». D’istinto avrei potuto urlargli in faccia tutto il dispiacere che aveva provocato quella sua decisione, ma l’ho fissato negli occhi ed è come se avessi visto mio padre. Come fai a rivoltarti a un papà? Mi dispiace però, la motivazione per cui non mi portò in Messico rimarrà un mistero.

Veniamo nell’area piccola dell’attualità, come se li spiega invece i recenti fischi di San Siro a Gigio Donnarumma?

Fischiare sarà anche un diritto come dicono, ma noi da sempre abbiamo un brutto tifo. Donnarumma può essere criticato per le scelte che ha fatto lasciando il Milan e per il peso che ha il procuratore che lo assiste nelle sue decisioni, ma per quello che ha fatto agli Europei e quello che sta dando ancora alla Nazionale, meriterebbe il massimo rispetto. Ma ripeto, è un problema culturale, purtroppo sono storie che si ripeteranno ancora nei nostri stadi.

La San Siro interista è famosa per aver fischiato persino Matthäus e il “Fenomeno” Ronaldo, quindi sarà toccato anche a Bordon.

Mai fischiato dai tifosi interisti, anzi. Quando sono andato alla Samp il calendario alla prima di campionato mi mise contro proprio l’Inter e San Siro mi ha accolto con gli applausi prima, in quanto ex, e dopo, perché vincemmo 2-1 in rimonta, con doppietta del grande Trevor Francis.

Qual è stato l’allenatore più importante che ha avuto da giocatore?

Giovanni Invernizzi è quello che per primo ha creduto in me, poi Eugenio Bersellini. Il “Sergente di ferro” era diverso dagli altri tecnici per il suo modo di allenare e per la cura maniacale dell’alimentazione. Per noi è stato un piccolo choc all’inizio, ma con il tempo si è creata quell’empatia che è tipica solo delle squadre vincenti (Inter dello scudetto dell’80). Una sensazione che ho avvertito quest’estate osservando la Nazionale campione d’Europa di Roberto Mancini.

L’Italia dei “gemelli doriani” Mancini e Vialli che lei tenne praticamente a battesimo alla Samp.

Mancini l’avevo affrontato due anni prima a Bologna, era un predestinato e il presidente della Samp Mantovani aveva capito che sarebbe diventato il leader della squadra dello scudetto e di un ciclo doriano, forse, irripetibile. L’abbraccio tra Mancini e Gianluca Vialli alla finale di Euro 2020 mi ha commosso e mi ha fatto ripensare a quando prima del lockdown ho reincontrato Gianluca a San Siro. Vialli era seduto cinque sei file sotto di me e Scanziani, quando mi ha visto è salito di scatto per abbracciarmi: Gianluca è un campione vero e lo sta dimostrando anche nella lotta alla malattia.

Ci sono i campioni come Mancio e Vialli e poi i geni incompresi come Mario Frustalupi e Alviero Chiorri.

Mario ha cominciato all’Inter con me (poi vinse lo scudetto del ’74 con la Lazio), gran cervello di centrocampo, ma è nato nel tempo in cui circolavano ancora i Mazzola e i Rivera. Frustalupi era un ragazzo buono con tutti, se ne è andato troppo presto... (incidente d’auto a 38 anni, ndr). Alviero era un giocatore pazzesco. Quando ero al Brescia e lui alla Cremonese (stagione 1987-’88) mi fece un supergol in corsa: palla lunga, e tocco sotto a scavalcarmi in uscita. Chiorri era un un estroso, ma fa parte di quella razza dei geni ribelli che alla fine pagano sempre un prezzo.

C’è stato un Chiorri anche in porta?

Per mezzi tecnici e fisici, uno che meritava un altro destino sicuramente è Sebastian Frey. I suoi begli anni li ha fatti, ma è stato una sola stagione all’Inter e la sua carriera poi l’ha consumata tra Parma e Fiorentina, chiudendo al Genoa. Uno come Frey invece poteva essere titolare all’Inter e nella Francia degli anni ’90.

Pazzia del portiere: a proposito, come mai lei non rientra nella casistica?

Che il portiere deve essere per forza “matto” è un’antica diceria. Poi certo, ha ragione anche il mio vecchio compagno dell’Inter Nazzareno Canuti che da sempre mi chiede: «Ma come si fa a buttarsi tra i piedi di un attaccante e beccarsi un calcione in testa se non sei davvero pazzo?» – sorride divertito – . Ci sono i portieri folli e poi ci sono quelli come Zoff e il sottoscritto.

Ha sempre detto che Dino Zoff è stato il più grande portiere italiano, conferma?

Dino è stato il più grande della mia epoca, poi abbiamo avuto il tempo di Buffon e adesso è l’era di Donnarumma. Mai fare confronti con il passato. Il mio idolo di gioventù era Jascin, poi ho amato Banks e tra i portieri italiani mi ispiravo ad Anzolin della Juventus.

Alla Juve, da interista doc, poi c’è finito a fare il preparatore dei portieri...

Mi volle Marcello Lippi con il quale tra la Juventus e la Nazionale abbiamo lavorato assieme 15 anni, vincendo tutto. Ero nel suo staff dell’Italia al Mondiale vinto nel 2006 in Germania. Mi chiese di seguirlo anche in Cina, ma non ho potuto... Marcello è un uomo straordinario, sia come tecnico che dal punto di vista umano, sarò per sempre infinitamente grato anche a lui.

Gratitudine e amicizia che in una squadra diventa fratellanza, sono valori che lei scrive di aver trovato nel calcio.

Quei valori forti stanno ancora dentro alla chat dei compagni dell’Inter dello scudetto del 1979 ’80. Siamo davvero legati come fratelli e quando ci ritroviamo il discorso ricomincia sempre come se fossimo appena rientrati nello spogliatoio dopo una partita. Il Covid ci ha impedito di vederci, ma adesso sono cominciati i tempi di recupero, e anche la presentazione del mio libro sarà un’occasione per le nostre belle rimpatriate».

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