venerdì 25 maggio 2018
Alla Biennale Architettura la prima volta un padiglione della Santa Sede: sull’isola di San Giorgio una riflessione sullo spazio sacro affidata a dieci progettisti
L’interno della “capanna” del giapponese Teronobu Fujimori, dove la croce s’innesta nell’elemento strutturale (Alessandra Chemollo)

L’interno della “capanna” del giapponese Teronobu Fujimori, dove la croce s’innesta nell’elemento strutturale (Alessandra Chemollo)

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Dopo due esperienze nelle Arti visive, la Santa Sede da domani approda alla Biennale Architettura. Lo fa con un progetto importante, presentando dieci cappelle nel parco che occupa parte dell’isola di San Giorgio. Vatican Chapels (fino al 25 novembre) è dunque una tappa storica: ma non del dialogo tra Chiesa e contemporaneità. Questa è un’espressione che sottende un equivoco, ossia che le due siano enti separati chiamati a incontrarsi. Pare più giusto invece parlare di dichiarazione e presa di coscienza di come il cattolicesimo sia parte integrante e attiva della modernità.

Come spunto il curatore Francesco Dal Co ha proposto al Pontificio Consiglio della Cultura, e quindi a dieci architetti di tutto il mondo, la Skogskapellet, la Cappella nel bosco realizzata da Erik Gunnar Asplund tra 1918 e 1921 nel cimitero di Stoccolma. Capolavoro di misura ed essenzialità, fonde in sé il sentimento romantico della natura proprio del Nord Europa e una riflessione sulle radici dell’architettura classica, attraverso il rapporto primitivo tra tempio e capanna. Si tratta di una cappella funeraria e luterana, e quindi dotata di proprio e preciso spirito. Ma ciò che conta per Dal Co è il rapporto dell’architettura con lo spazio naturale, «un dialogo sottile e complesso» nel segno della contiguità fisica e spirituale, «un luogo di orientamento, incontro, meditazione» all’interno di un bosco come «evocazione del labirintico percorso della vita e del peregrinare dell’uomo in attesa dell’incontro ».
Una dimensione simbolica ben rievocata nell’allestimento nel bosco di San Giorgio, dove l’esiguità della superficie è compensata dall’estensione metafisica della laguna. Gli architetti sono Andrew Berman (Usa), Francesco Cellini (Italia), Javier Corvalán (Paraguay), Eva Prats e Ricardo Flores (Spagna), Norman Foster (Regno Unito), Teronobu Fujimori (Giappone), Sean Godsell (Australia), Carla Juaçaba (Brasile), Smiljan Radic (Cile), Eduardo Souto de Moura (Portogallo). Lasciati liberi davanti al tema, la maggior parte ha esplorato il rapporto con l’ambiente aperto tralasciando la cappella di Asplund per guardare invece a esempi vicini, più spesso nel segno della presenza forte (Zumthor, Botta...) che della fusione con la natura.

Il catalogo Electa presenta per ogni cappella un testo dell’architetto, schizzi e bozzetti, le tavole del progetto, la documentazione fotografica del montaggio e dell’edificio costruito. Gianfranco Ravasi in catalogo spiega che «cappella è una chiesa piccola, riservata a un ristretto numero di fedeli, con eventuale apparato rituale comprenden- te altare e ambone». Non tutte le dieci cappelle però si conformano in toto a questa definizione. In altre proprio l’introduzione di un altare le completerebbe in maniera essenziale: è il caso di Javier Corvalán, che propone un grande cerchio sospeso su cui si libra una croce tridimensionale. È uno spazio ricco di potenziale ma astratto: una mensa, centro non fisico ma teologico, ne attiverebbe tutta la forza simbolica. In alcune bisogna dire che sorprende l’assenza di un segno religioso in favore di una visione piuttosto lata della spiritualità.
Andrew Berman crea uno spazio estremamente concentrato, ma il piccolo altare in legno nel buio su cui scende una luce è rimando a una presenza tanto flebile da sembrare dispersa. Norman Foster, che pure evoca le croci, realizza una struttura tecnicamente spettacolare in legno e acciaio: ma il percorso, nonostante la bella idea del mutamento di direzione, non ha una conclusione, la cappella si disperde nel paesaggio e quello che pare essere l’altare è un oggetto inaccessibile.

Molte altre cappelle invece colgono perfettamente nel segno, dimostrando una riflessione sulla specificità spirituale dello spazio cristiano. La cappella di Fujimori è uno degli apici del percorso. La sua è una capanna, un luogo tranquillo. Vi si entra per una porta strettissima. L’interno è bianco, un’impalcatura in legno regge una semplice falda. Ma proprio nell’elemento strutturale Fujmori innesta la croce, fatta emergere all’incontro tra traversa e pilastro da piccole foglie d’oro e tre chiodi. La parete di fondo è cosparsa da pezzi di carbone, assenti dietro la croce così da creare un alone luminoso.

Se la croce è struttura dello spazio, su di lei converge il silenzio. Anche Juaçaba chiama la croce a dare corpo al luogo. Due grandi croci in acciaio, una verticale e una parallela al terreno con funzione di seduta, nascono da un punto comune e definiscono le coordinate. Non ci sono muri. La natura sacralizzata si riflette nella superficie lucida. Come nella cappella nel bosco realizzata da Paolo Zermani sull’Appennino parmense nel 2012, non c’è altare ma non importa: è un luogo per la preghiera, sosta nel mezzo di un lungo cammino.

La cappella di Godsell trasforma lo spazio attorno a sé connotandolo come liturgico. È un alto parallelepipedo in acciaio: le parti inferiori si alzano formando una croce e rivelando all’interno un altare. Un piccolo leggio pieghevole è ancorato alla struttura. La parte interna del volume, una sorta di alto tiburio aperto alla sommità, è di colore dorato così da gettare sul sacerdote una luce di qualità differente. Grazie alla forza centripeta della cappella, la natura circostante, luogo dell’assemblea celebrante, diventa parte stessa dell’architettura.

Souto De Moura offre un capolavoro commovente. Un recinto in blocchi modulari di pietra di Vicenza, in parte coperto da due lastre monolitiche. È un luogo caldo e rigoroso, austero e famigliare. Uno sbalzo corre tutto attorno al perimetro interno, come una seduta che avvolge un semplice altare, essenziale a creare il luogo. Una croce è incisa sul fondo. Precede l’ingresso un piccolo vano quadrato, memoria di un nartece. Qui il tempo rallenta, si entra in uno spazio altro e insieme concreto.

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