mercoledì 28 novembre 2018
L’argentino ex viola: «Se avessi saputo degli orrori di Videla non sarei sceso in campo nel 1978. Boca-River? Una vergogna. Con la Fiorentina perso uno scudetto in modo dubbio contro i bianconeri»
Daniel Bertoni in viola in un Fiorentina-Juventus anni ’80

Daniel Bertoni in viola in un Fiorentina-Juventus anni ’80

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«Quello che è successo sabato scorso a Buenos Aires prima della finale tra River Plate e Boca Juniors è una vergogna mondiale. Non è semplice teppismo ma un problema sociale. Ci sono frange violente della tifoseria disposte a tutto pur di svolgere i loro affari. Credo che spetti in primo luogo ai dirigenti delle società di calcio intervenire per risolvere il problema ». Daniel Bertoni, indimenticato campione argentino degli anni ’70 e ’80, si dice profondamente amareggiato per le immagini che ha visto in televisione. L’aggressione al pullman del Boca, i giocatori feriti, la partita rinviata. In questi giorni l’ex attaccante campione del mondo del ’78 è tornato a Firenze per partecipare alla cerimonia della “Hall of Fame” della Fiorentina, che l’ha inserito tra i grandi della storia viola. Nonostante l’età, lo sguardo scanzonato e il sorriso sornione sono rimasti gli stessi di quando faceva ammattire le difese avversarie. E non solo quelle. Lunedì sera, durante la premiazione fiorentina, il suo amico ed ex compagno di squadra Giancarlo Antognoni l’ha definito «immarcabile anche fuori dal campo». Le statistiche dicono che Bertoni è stato il primo straniero a segnare un gol in Italia dopo la riapertura delle frontiere. Era il 28 settembre 1980, a Firenze si giocava Fiorentina-Catanzaro. Il “puntero” di Bahia Blanca, giunto quel-l’estate dal Siviglia, si sbloccò con un gol su punizione sotto la curva Fiesole e conquistò subito i tifosi viola, che l’avrebbero osannato per quattro anni. D’altra parte lui aveva i colpi del fuoriclasse: dribbling secco, tiro potente e preciso, punizioni micidiali. Poi sbarcò a Napoli, alla corte di Maradona, da dove se ne andò l’anno prima dello scudetto per approdare a Udine, chiudendo la carriera nel campionato italiano con un totale di 170 presenze e 42 reti. L’unico rammarico che gli è rimasto è quello di non aver vinto niente nel nostro paese. «Nel 1982 persi in modo incredibile e ingiusto lo scudetto con la Fiorentina. Fu la Juventus a scipparcelo all’ultima giornata dopo un lungo testa a testa. Con il Napoli non andammo oltre il terzo posto». In Argentina ha invece vinto tutto - campionati, coppe Libertadores, coppe interamericane con l’Independiente di Buenos Aires - ma soprattutto ha messo il sigillo al trionfo della sua nazionale ai Mondiali del 1978. Suo fu il gol del definitivo tre a uno nella finale di Buenos Aires contro l’Olanda, esattamente quarant’anni fa. Un trionfo storico che rimarrà per sempre legato alla tragedia dei desaparecidos e ai crimini della giunta militare. Mentre gli occhi del mondo erano puntati sui campi di calcio, decine di migliaia di oppositori politici veri e presunti languivano nei luoghi di prigionia. La famigerata Scuola di meccanica della Marina (Esma), definita l’«Auschwitz argentino» dallo scrittore Eduardo Galeano, si trovava a poche centinaia di metri dallo stadio dove si giocò la finalissima. Adesso Daniel Bertoni fa il commentatore per Fox Sport e l’osservatore di giovani talenti, girando per i sobborghi di Buenos Aires alla ricerca di nuove stelle. E segue sempre con grande attenzione il campionato italiano.

Sabato c’è Fiorentina-Juventus, una sfida che ha disputato tante volte.
«La partita più bella e indimenticabile, per me, è quella che si giocò nel 1983. Dopo la beffa dell’anno prima, con lo scudetto perso in modo dubbio all’ultima giornata, a Firenze la partita finì 3-3 e io segnai una doppietta. Stavamo per vincere contro una Juve che era praticamente la nazionale italiana campione del mondo con Boniek e Platini. Non riuscimmo a batterla solo a causa di una sfortunata autorete a pochi minuti dalla fine. Quella di sabato prossimo sarà invece una sfida molto difficile per la Fiorentina ma i giocatori viola devono aver fiducia e credere nella grande impresa».

È vero che a Napoli litigava con Maradona per tirare le punizioni?
«L’accordo era che sul lato destro tirava lui e sul lato sinistro tiravo io. Io non avevo mai da ridire sui tiri dalla parte sua, semmai a volte i litigi nascevano sul lato mio. Un giorno, in una partita di coppa Italia al San Paolo contro l’Arezzo non riuscivamo a decidere e allora io tirai all’improvviso, sorprendendo anche lui mentre stava tornando indietro per prendere la rincorsa. La palla finì in rete e lui venne ad abbracciarmi. Ma mi sussurrò in un orecchio “non farlo mai più”...»

Diego era più forte di Messi?
«Secondo me non si possono fare paragoni tra loro. Il calcio di Adesso è troppo diverso da allora. Entrambi sono stati i più grandi delle rispettive epoche. Maradona si giocava il primato con Platini e con Zico proprio come Messi se lo gioca da anni con Cristiano Ronaldo».

Ha il rammarico di non aver vinto niente in Italia?
«Sì, un rammarico davvero grande. Piansi quando con la Fiorentina perdemmo lo scudetto nel 1982. Ma era destino che non dovessi mai vincere il campionato italiano. Quell’estate potevo essere ceduto alla Roma di Dino Viola ma non se ne fece niente e poi i giallorossi vinsero lo scudetto. Due anni dopo scelsi di andare a Napoli invece che al Verona di Bagnoli, che avrebbe vinto proprio quell’anno. Infine a Napoli, due anni splendidi con Maradona nella squadra vincente che stava nascendo intorno a lui, ma poi litigai con Ottavio Bianchi e Italo Allodi e fui ceduto all’Udinese proprio l’anno in cui il Napoli vinse lo scudetto».

Però ha vinto molto in Argentina, a cominciare dalla Coppa del Mondo. Se pensa all’edizione del 1978, che giocaste e vinceste in casa, qual è la prima immagine che le viene in mente?
«Non posso scordare che per l’Argentina quello era un momento terribile sul piano politico, a causa del regime. Sapevamo che era in corso un duro scontro tra lo stato e i terroristi ma i militari tenevano sia la popolazione che noi calciatori all’oscuro di tutto. Anche la stampa non ne parlava, non poteva farlo. L’informazione era sotto controllo. Menotti ci disse di giocare per dare una gioia alla gente, non ai militari».

Se avesse saputo che la dittatura di Videla stava facendo strage di migliaia di innocenti sarebbe cambiato qualcosa?
«Sì, non sarei sceso in campo... Non avrei mai giocato quel Mundial. I generali ci usarono per dimostrare che l’Argentina era un paese tranquillo e per guadagnare credito a livello internazionale però penso che alla fine quella visibilità sia servita anche alle Madri di Plaza de Mayo per accendere i riflettori su quelle atrocità».

La Seleccion è stata una delle grandi delusioni dell’ultimo mondiale.
«Purtroppo sì. Ci sono giocatori della vecchia guardia che hanno fatto il loro tempo e che a mio avviso devono lasciare la squadra. Del gruppo andato in Russia confermerei soltanto Messi, sarà lui a decidere se andare o meno al prossimo mondiale visto che allora avrà già 35 anni. Tutti gli altri non vorrei più vederli con la maglia dell’Argentina».

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