venerdì 17 giugno 2016
Beirut, le cicatrici e i vuoti postmoderni
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A Beirut i tuoni di un temporale risuonano come granate, ma questa volta si rivelano un falso allarme. Il cielo è di nuovo terso, di un azzurro chiaro, avvolto dai vapori dell’afa e dell’inquinamento. Per il giovane Ibrahim Samaha è invece un inganno: spaventato dal fatto che la pioggia avrebbe potuto compromettere le proiezioni all’aperto del suo “Cabriolet”, ossia il festival libanese e internazionale di cortometraggi, ha preferito rimandarlo di una settimana. Si svolge ogni anno (questa volta anche con il sostegno dell’Istituto italiano di cultura diretto dall’instancabile Edoardo Crisafulli) nel quartiere cristiano maronita di Gemmayzeh, lungo un pittoresca scalinata che forse, ad uno sguardo squisitamente cinefilo, vorrebbe evocare quella ben più nota di Odessa. Un omaggio a Ejzenštejn, certamente, ma anche alla città che in questo modo diventa più trendy. Viale Gourand, lungo quasi un chilometro, è un bell’esempio, ma al tempo stesso anche triste, di distruzione sistematica seppur parziale del tessuto urbano della Beirut antica che un tempo allineava sull’importante asse viario costruzioni medievali con strutture portanti ad archi a sesto acuto in tufo: ora o quasi del tutto scomparse, sotto i nuovi intonaci di graziose palazzine primo Novecento, o distrutte tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo passato per far posto a orrendi caseggiati sorti con intenti speculativi (un vizio che si protrae sino ad oggi). Nella via restano, tuttavia, intatte poche residenze, risalenti al periodo tardo ottomano, che presentano alcune costanti architettoniche come le finestre ad arco tripartite e sovrapposte su due-tre livelli. Beirut, è una metropoli del Mediterraneo orientale in guerra permanente: iniziata nel lontano 1975, originariamente tra palestinesi e israeliani sul suolo libanese, presto trasformatasi in guerra civile tra fazioni libanesi cristiane e musulmana. Oggi, sebbene in via di totale ricostruzione, mostra ancora i segni della distruzione della guerra: innanzitutto la cosiddetta Linea verde, sorta di no man’s land stretta tra due file di palazzi e in cui era cresciuta la vegetazione (una natura selvaggia simbolica, confine tra due civiltà in conflitto). Il suo lungo tracciato verticale tagliava letteralmente la città in due parti, l’Est musulmano e l’Ovest cristiano maronita.  Due anime religiose in aperto conflitto. L’una ferocemente contro l’altra, con i cecchini delle rispettive parti che sparavano dalle case sul livello della strada o da altezze considerevoli (alberghi e grattacieli tra cui quello, alto e stretto e completamente vuoto, occupato al pianterreno dalle forze armate di difesa della città, che si erge solitario nel mezzo del centro cittadino). Uno dei tanti effetti della guerra riguarda lo spostamento del baricentro urbano della vita sociale ungo l’asse est-ovest: dal quartiere di Hamra, che si trova nel settore musulmano, e dalla sottostante Corniche (il lungomare di Beirut, dove, tuttavia, si riversano nelle ore serali le famiglie e i giovani musulmani), epicentro della vita notturna tra gli anni Sessanta e Settanta, si è dunque passati dalla fine della guerra ai quartieri cristiani di Gemmayzeh e di Mar Mikhael dove, oggi, sembra concentrarsi la nuova mondanità. Sebbene con la ricostruzione avanzi anche la speculazione edilizia, che vorrebbe dare un nuovo volto alla città e far dimenticare gli oltre vent’anni di conflitto, l’orrore della guerra civile è ben presente in ogni cittadino di Beirut. L’immensa e centrale Piazza dei Martiri, risul- tante di sconvolgimenti bellici, oggi non è che uno squallido e immenso parcheggio circondato da nuovi e alti edifici in vetro e cemento o da carcasse di vecchi stabili tra i quali un cinema, ridotto a un moncone nero dalla forma curva, strana, simile ad una balena. Solo nella parte meridionale della piazza, rivolta verso il mare, si ha finalmente una rappresentazione simbolica e insieme concreta di ciò che la storia, l’archeologia e la religione hanno rappresentato in questo piccolo Paese del Mediterraneo: in una sequenza ininterrotta, troviamo l’una accanto all’altra la al-Amin, ossia la grande moschea blu (imbarazzante copia della moschea di Istanbul, edificata solo dieci anni fa), l’ottocentesca cattedrale cristiano- maronita di San Giorgio con il recentissimo campanile (aggiunto per equilibrare la presenza di ben quattro minareti), la cattedrale ortodossa dedicata al medesimo santo, le rovine sparse ovunque della Beirut fenicia, ellenistica, romana, mamelucca, e la piccola moschea di Amir Assaf.  Si respira in questa zona della città un senso di universalismo religioso cosmopo-lita, ma anche di una civiltà antichissima di cui oggi non si ammirano che poche, splendide ancorché malinconiche tracce. Nel giungere per la prima volta in questa città si ha come la percezione che ai disastri della guerra si debbano aggiungere quelli della ricostruzione. Infatti la riprogrammazione urbana, perlopiù sostenuta da ingenti capitali stranieri, è accompagnata da una campagna di promozione e di pubblicità in cui l’edilizia, nella fattispecie di un nuovo palazzo residenziale o dell’ennesimo grattacielo di trenta-quaranta piani, viene semplicemente trattata come merce di lusso, prodotto altamente qualificato da consumare più che da vivere, al pari di qualsiasi altra merce. L’ossessione feticistica della verticalità si è da tempo ormai impadronita di una città che verticale non lo era mai stata. Vediamo così realizzato il tipico paradosso del capitale globale che mette radici nel tessuto locale, per sconvolgerlo, e al tempo stesso, affermare il proprio potere e controllare una società, quella libanese, già lacerata da una miriade di interessi privati, politici e religiosi, dove il pubblico non ha quasi cittadinanza. Scrive, a tale proposito, il poeta libanese di origine siriana ed émigré a Parigi, Adonis, che «Beirut non è una città ma una testimonianza ». Basti, allora, recarsi nel nuovo quartiere centrale per comprendere uno dei tanti paradossi o follie, se si preferisce, della ricostruzione. È stato avviato grazie al progetto dal nome rassicurante e perentorio di “Solidere” (che è in realtà acronimo di “Società libanese per lo sviluppo e la ricostruzione del quartiere centrale di Beirut”) voluto da Rafiq al-Hariri, l’affarista e uomo politico oggi più amato in Libano ma che tuttavia è stato fatto saltare in aria il 14 febbraio del 2005. L’idea era ricostruire il vecchio distretto dei primi anni del Nove- cento, duramente colpito dall’esercito israeliano che invase per la prima volta il Libano nel 1978 (34 giorni di assedio) e successivamente nel 2006 (dal 12 luglio al 14 agosto), esattamente secondo il disegno originario; e, inoltre, di proporre una nuova centralità urbana, che presto si sarebbe rivelata un fallimento. Al centro di esso, Place de l’Étoile con il famoso orologio, da cui si diramano ben sei strade porticate in stile pseudo-modernista, realizzate con la medesima pietra gialla. Oggi quest’area, che doveva favorire il rilancio della città sul piano della socialità e della vivibilità, è inspiegabilmente militarizzata; postazioni di controllo, cancelli, garitte e filo spinato la rendono quanto meno un luogo inospitale, paradigma del vuoto della città postmoderna, dal quale sono già fuggite numerose attività commerciali. Ecco spiegato il paradosso di una città non-città che mescola ciò che resta di una celebrata quanto equivoca mondanità internazionale con il nuovo clima politico religioso confessionale e che tuttavia fatica a trovare una nuova identità. Un altro, più grande paradosso è quello riguardante il complesso intreccio tra confessioni religiose (ve ne sono almeno trenta in tutto il Paese, tra cui cristiani, drusi, musulmani sunniti e sciiti) e partiti politici.  Il confronto serrato tra cristiani maroniti e musulmani determina le scelte politiche e istituzionali, stabilisce dalla fine della guerra civile i ruoli e le cariche (presidenza della Repubblica ai cristiani, presidenza del Parlamento a un musulmano sciita, primo ministro un musulmano sunnita). E tuttavia ormai da due anni il Libano non sa esprimere un presidente della Repubblica.
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