giovedì 9 novembre 2017
Parla lo storico, autore di un saggio sul coinvolgimento dell'infanzia nei conflitti durante l'ultimo secolo: «Non fermiamoci al dato simbolico»
Un bambino soldato delle milizie sudanesi in Darfur

Un bambino soldato delle milizie sudanesi in Darfur

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Si chiamava Pavel Morozov, ma generazioni intere di bambini sovietici lo hanno conosciuto come il piccolo Pavlik, l’eroico Pavlik. Di sicuro c’è solo che fu ucciso insieme con il fratello (destinato a scomparire molto presto dall’iconografia ufficiale) nel settembre del 1918, in un villaggio vicino al confine con la Siberia. Il ragazzo non aveva ancora compiuto 14 anni e, nonostante la mancanza di informazioni affidabili, la propaganda comunista ne fece presto un modello da indicare alla gioventù. Secondo la versione diffusa tra i Pionieri dell’Urss, infatti, Pavlik non avrebbe esitato a denunciare il padre, colpevole di attività controrivoluzionaria. «Una storia molto probabilmente falsa – spiega lo storico Bruno Maida, ricercatore all’Università di Torino –. A colpire di più, però, è il dettaglio del nome cambiato, sia pure leggermente: quando parliamo di bambini in guerra, tendiamo sempre a trasformarli in simbolo di qualcos’altro, in modo spesso ideologico. Ma dimentichiamo che il nostro primo dovere dovrebbe essere quello di restituire a ciascuno il suo vero nome, ossia la sua identità reale». È un impegno che Maida si è assunto da tempo, per esempio pubblicando nel 2013 un importante studio su La Shoah dei bambini. Ora, sempre da Einaudi, esce L’infanzia nelle guerre del Novecento (pagine XIV+344, euro 30,00), una ricognizione che dai conflitti mondiali arriva alla situazione attuale, fino ai bambini soldato di ogni latitudine e ai minori non accompagnati nel flusso delle migrazioni. Moltissime storie, inquadrate in una visione complessiva originale e rigorosa. E moltissimi nomi, appunto. «Perché è il nome a fare la differenza – insiste Maida –. Pensi alla vicenda di Aylan, il piccolo siriano annegato davanti alla costa turca di Bodrum. Quanti altri cadaveri di bambini avevamo visto prima di allora nei contesti più diversi? Di nessuno o quasi, però, conoscevamo il nome e questo ci consentiva di cullarci nell’illusione di stare dalla parte del giusto. Peggio ancora, di non avere responsabilità ».

I bambini non sono abbastanza protetti?

«All’origine della mia ricerca c’è la constatazione dello scarto tra l’alto grado di tutela giuridica dell’infanzia garantito, almeno in via teorica, dalla legislazione internazionale nel corso del Novecento e il crescente coinvolgimento dei civili, e quindi dei bambini stessi, nelle guerre del cosiddetto Secolo breve. È una storia difficile da ricostruire, perché di norma la voce degli adulti si sovrappone e sostituisce a quella dei protagonisti. L’unico modo di raccontare l’infanzia, invece, è di partire dall’infanzia stessa, valorizzando i suoi linguaggi specifici: il disegno, il gioco. Perché i bambini riescono a giocare ovunque, persino nella pozzanghera che si forma nel cratere lasciato da una bomba».

Ma così non c’è il rischio di idealizzare l’infanzia?

«No, se si ha il coraggio di considerare il quadro nella sua completezza. Prendiamo il concetto, oggi molto diffuso, di resilienza. Uno sguardo obiettivo e non accomodante ci porta ad ammettere che per affrontare il trauma della guerra la resilienza del bambino, da sola, non basta. Occorre che ci sia una comunità capace di accogliere e accompagnare. Di dimostrarsi a sua volta resiliente e, di nuovo, responsabile. Altrimenti, se intorno non restano che macerie, il bambino non può che soccombere, come accade al piccolo Edmund in Germania anno zero di Roberto Rossellini».

Qual è stato il ruolo dei totalitarismi nella militarizzazione dell’infanzia?

«Cruciale, su questo non ci sono dubbi. Quello di Pavlik non è stato affatto un caso isolato. La Germania nazista ha avuto la Hitlerjugend, mentre in Italia il fascismo ha trasformato il personaggio di Balilla (che da principio aveva un significato rivoluzionario) nell’archetipo del piccolo soldato obbediente. La pedagogia bellica messa in atto dai totalitarismi si è rivelata straordinariamente efficace, ma tutti i governi dell’ultimo secolo, compresi quelli democratici, hanno puntato sulla mobilitazione dell’infanzia. Si tratta di una questione politica e come tale va affrontata».

Anche oggi?

«Sì, anche oggi. Nella seconda metà del Novecento la geografia del mondo cambia sensibilmente, l’Occidente si considera al sicuro dal rischio della guerra, ma intanto continua a finanziare dittature, vendere armi, sottoscrivere accordi che non saranno rispettati. I conflitti nella ex Jugoslavia prima e poi il moltiplicarsi degli attentati terroristici insidiano in modo sempre più forte queste presunte certezze. La figura del bambino soldato appare sempre più minacciosa e scandalosa, ma nello stesso tempo finisce per oscurare un dato ancora più terribile: quando scoppia una guerra, la maggior parte dei bambini muoiono per la desertificazione del territorio e per la distruzione delle risorse, non perché partecipano direttamente ai combattimenti».

Ma non è questa la logica dei genocidi?

«Certo: i bambini sono le vittime designate di ogni disegno di pulizia etnica, del quale fa parte, in maniera drammaticamente speculare, il ricorso allo stupro, adoperato come arma per ribadire l’odiosa supremazia del vincitore. In entrambi i casi, ci si muove in un contesto di guerra, e di una guerra che non colpisce genericamente l’infanzia, ma che ha conseguenze diverse a seconda del genere sessuale. In qualsiasi conflitto bambine e bambini si trovano in situazioni differenti. E devono cercare di sopravvivere adottando strategie differenti».

I minori non accompagnati sono i nuovi orfani di guerra?

«L’identificazione è tutt’altro che immediata. In passato, al termine di una guerra, l’emergenza degli orfani era gestita dai Paesi di cui i bambini erano originari, attraverso procedure lunghe e complesse, ma che si fondavano su presupposti politici e geopolitici abbastanza chiari. Nel caso dei minori non accompagnati, invece, questa dimensione non esiste più. Le guerre di oggi mancano di un orizzonte politico riconoscibile, non si inseriscono in una prospettiva nazionale o, se si preferisce, nazionalistica. Questo significa che, al di là delle difficoltà legate all’incertezza dell’anagrafe e del riconoscimento, viene meno la possibilità stessa di un ritorno a casa. È come se il mondo si fosse trasformato in una terra di nessuno, con conseguenze che in questo momento possiamo provare intuire, ma della cui portata ci renderemo conto solamente con il passare del tempo».

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