venerdì 13 maggio 2022
Intervista al mediano del Napoli del primo scudetto che con Bruno Giordano ha scritto il libro "Che vi siete persi", in cui raccontano la storia di quella grande squadra e dell'amicizia con Maradona
Salvatore Bagni e Diego Armando Maradona ai tempi del Napoli

Salvatore Bagni e Diego Armando Maradona ai tempi del Napoli

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Il mediano del 1° scudetto del Napoli con l’ex compagno Bruno Giordano hanno scritto il libro “Che vi siete persi”: diario di un’impresa al fianco di Maradona «La vede quella foto lì? Cosa c’è scritto? “Per Salvatore il più grande...” – e scoppia a ridere – . Capito, il più grande campione di sempre, Diego Armando Maradona, un leader maximo che non rivedremo più su questa terra, almeno per i prossimi duemila anni, che scrive a me, “il più grande”. Una follia, no?». È stato comunque un grande del calcio anche lui, Salvatore Bagni. Nato a Correggio – nel 1956 – come lo scrittore Pier Vittorio Tondelli e il rocker Luciano Ligabue che Una vita da mediano l’ha scritta per Lele Oriali, ma forse, da interista sfegatato, pensava un po’ anche al “Guerriero” Salvatore. Vita da mediano anche per Bagni, la seconda dall’Inter al Napoli, perché nella prima giostrava da ala destra in quel “Perugia dei miracoli” – imbattuto per 30 giornate (campionato a 16 squadre 1978-’79) e 2° posto dietro il Milan – di Ilario Castagner, in cui era arrivato scalando rapido dalla D (dal Carpi) alla Serie A. Un’impresa con quel Perugia di cui parlano ancora perfino i muri della città umbra, vedi lo slogan da formidabili quegli anni: «Se Butti Casarsa Dal Fiume, Bagni Speggiorin». Quello scudetto, clamoroso per una provinciale (il Verona di Bagnoli avrebbe reso giustizia anche al Perugia vincendolo nell’85) Bagni se lo vide scucire dalla maglia del Grifo per poi riconquistarlo nell’apoteosi maradoniana di Napoli, nell’87. Un film senza fine, che Bagni ha rivisto e riscritto assieme all’ex azzurro, il “Bomber” Bruno Giordano, in Che vi siete persi (Sperling&Kupfer. Pagine 228. Euro 18,00). Titolo che rimanda a una scritta che apparve in un cimitero di Napoli all’indomani di quell’impresa tricolore vissuta da un’intera città come il più grande riscatto sociale del Sud povero e affamato sul Nord ricco e dispotico.

Quel Nord potente che Bagni aveva conosciuto all’Inter, il club che lo aveva trasformato in mediano.

Arrivai all’Inter dal Perugia e fu un’annata “insonne”. Passavo le notti in bianco per via della nascita di mia figlia, la primogenita, Elisabetta (gli altri due figli sono Alice e Gianluca che lavora nella società di famiglia di Football consultant). Ma Eugenio Bersellini, che per me è stato un “Sergente buono”, altro che di ferro, mi dava piena fiducia. Ad ogni fine allenamento mia moglie Letizia veniva a prendermi in macchina ad Appiano Gentile e la scena era sempre la stessa: lei andava in porta, io, mister Bersellini e il preparatore atletico Armando Onesti, ci mettevamo a giocare come bambini... I compagni erano tornati a casa da un pezzo, mentre noi continuavamo con la gara di tiri. E quando smettevamo non era per la fatica, ma per le risate e per il buio...

Via Bersellini, all’Inter arriva Rino Marchesi

La mia fortuna. A Marchesi un giorno nel ritiro estivo gli venne l’idea di schierarmi mediano. «Ti va?», mi dice. Io accetto e di questo lo rin- grazio ancora quando lo sento, ed è un piacere parlare con uno che di calcio ne sa tanto, ma soprattutto è sempre stato un uomo per bene, un saggio.

Di Salvatore Bagni invece dicevano che fosse un “isterico”, un “nevroromantico” del pallone.

Tutti quelli che non mi conoscono mi giudicano soltanto per quello che ricordano di me quando giocavo: quindi un tipino tutto nervi e grinta. Ma posso assicurare che fuori dal campo, sono sempre stato molto diverso da quello visto dallo stadio o dalla tv. Mio padre mi ha sempre ripetuto che se fossi stato in campo come mi comporto fuori non avrei mai giocato a calcio in Serie A. Mai saputo cosa fosse lo stress, il calcio l’ho vissuto come un bel gioco e posso assicurare che in 66 anni nessuno mi ha mai visto triste dopo una partita.

Non la intristì neppure quando quarant’anni fa la misero in mezzo alla presunta “combine” di Genoa- Inter (2-3)?

C’hanno scritto pure un libro ( Non si fanno quelle cose a 5 minuti dalla fine!) – sorride – . Roba da matti, io so solo che su assist di Hansi Müller segnai il gol della vittoria, ma siccome non mi venne ad abbracciare nessuno dei miei compagni l’ufficio inchieste mi mandò a chiamare per interrogarmi. Mi chiesero: «Come mai signor Bagni?» A me caddero le braccia... come mai cosa, perché avevo fatto gol? Nella mia mentalità giocare significava provare a divertirmi e a vincere sempre, e io solo quello ho sempre cercato di fare.

Lo ha fatto con uno stile molto personale, che a un certo punto non andava più bene all’Inter.

Avevo ancora due anni di contratto, ero felice all’Inter, ma a marzo dell’84 cambia la proprietà: Fraizzoli cede a Pellegrini, il quale si presenta con un avvertimento: «Bagni, d’ora in poi in campo deve cambiare atteggiamento». Quando me lo ridisse per la decima volta allora gli risposi che se la pensava così potevano anche vendermi. Sandro Mazzola mi chiama in sede per rassicurarmi: «Salvatore dai, continua così, resta te stesso». Alla fine Pellegrinì tirò troppo la corda. Mi fece rientrare a Milano a fine campionato mentre ero a Cesenatico al capezzale di mia suocera malata – che poi morì quel luglio, a 56 anni – per comunicarmi: «Non volevo dirti niente: tu vieni in ritiro, stop. Altrimenti quest’anno giochi nel giardino di casa mia». Mi ripeté il concetto davanti a tutti mettendomi una mano sulla spalla. Diventai una furia e sbottai, alla mia maniera: «Presidente, se non mi toglie la mano da lì le do’ un pugno che la rispedisco nel suo ufficio ». Ero fuori di me...

Pellegrini a quel punto fu costretto a venderla al Napoli, ma avete chiarito a distanza di anni?

Io non serbo mai rancore per nessuno, Pellegrini è un gran signore e un grande imprenditore, ma con me ha sbagliato, perciò quando ricevetti la telefonata di Marchesi che allenava il Napoli gli risposi al volo: «Con lei Mister vengo a giocare da qualsiasi parte». Faccio notare che lasciavo una Inter da scudetto per un Napoli che lottava per non retrocedere.

Poi il miracolo dal cielo di “Eupalla”: il 5 luglio 1984 l’arrivo di Diego Armando Maradona al Napoli e l’inizio di un’era a tutt’oggi irripetibile.

È stato un dono reciproco, Maradona al Napoli e Napoli per Maradona. Chi sostiene che la città ha danneggiato il campione non sa quello che dice. Diego e Napoli hanno vissuto in simbiosi e per capire questa città bisogna averla vissuto come abbiamo fatto noi ai tempi. Per questo quando ognuno degli ex ragazzi del 1° scudetto torna, la gente di Napoli lo abbraccia come se non fosse mai partito.

Diego vive ancora nel cuore della città, nei “Bassi” napoletani, ma chi è stato Maradona?

Il ragazzo più tenero, generoso e intelligente che abbia conosciuto nel mondo del calcio. E come me la pensano tutti quelli che hanno avuto la fortuna di giocare con Maradona. Diego non ti gratificava mai a parole, ma con i fatti. Custodisco 30 ore di girato con la telecamera del Diego ospite a casa mia con la sua famiglia. Per i 18 anni di mia figlia Alice, Diego si sobbarcò un giorno intero di volo pur di fargli una sorpresa... – sorride – . All’epoca mia figlia era fidanzata con un ragazzo napoletano che era arrivato a casa nostra con una ventina di amici: rido ancora se ripenso alla faccia che fecero quando Diego entrò e con il suo sorriso bello disse: «Buonasera, auguri Alice!».

Memorabile come la “Mano de Dios” al Mondiale dell’86 con cui punì gli inglesi.

Molti hanno dimenticato, ma per il Napoli Diego concesse il bis. Perdevamo 1-0 contro la Samp al San Paolo, cross di Renica e Diego si tuffa, non ci arriva e allora il colpo di genio: da rasoterra colpisce con il pugno messo davanti alla testa e fa gol. Nessuno se ne accorse. Diego nello spogliatoio ridendo ci confessò: «Ho segnato di mano». Ma non gli credevamo, pensavamo scherzasse. Era vero invece. Eppure ho rivisto cento volte il filmato e posso assicurare che oggi ingannerebbe anche il Var. Quella è stata la “Supermano de Dios”.

Quella squadra vinse grazie a Maradona certo, ma forse anche perché la squadra era l’emblema della “napoletanità”.

Vero. In rosa c’erano Muro, Carannante, Caffarelli, Bruscolotti, Ferrara, Puzone, e poi i due massaggiatori Carmando e Dimeo. Erano tutti napoletani e ci fecero sentire a pelle il valore di quel senso di appartenenza. Napoli è qualcosa che ti resta dentro, io dico sempre che mi sento napoletano per il 60% e per il restante 40% sono ciò che mi hanno trasmesso le mie radici emiliane e romagnole.

Ma anche a Napoli l’anno dopo, con la la squadra di Ottavio Bianchi che perde lo scudetto e chiude al 2° posto, dietro al Milan, decidono di sacrificare il “vecchio” Bagni.

Avevo giocato meglio che nella stagione dello scudetto e pur di esserci sempre mi sottoposi a 200 punture per un’infiammazione al ginocchio che mi faceva penare. Finito il campionato, la società nella notte si riunisce e ci chiama uno ad uno al San Paolo e chiede a tutti di firmare il rinnovo accettando che 4 di noi sarebbero stati «fatti fuori». E i quattro erano il sottoscritto, Giordano, Garella e Ferrario...

Ma il suo amico Diego non intervenne?

La dirigenza furbescamente aveva convinto Maradona ad andare in barca a Capri e quando Diego tornò a Napoli i giochi erano fatti. Per me fu una coltellata alle spalle: in un colpo solo avevo perso campionato, squadra e la Nazionale dove ero titolare da cinque anni. Così, accettai la proposta di Pierpaolo Marino di scendere in B all’Avellino, ma la stagione seguente, con un anno di contratto ancora con il Napoli, preferì chiuderla lì andando a giocare con gli amici d’infanzia al Carpi.

Un finale ingrato, ordito da Ottavio Bianchi, il mister dello scudetto, in accordo con il presidente Ferlaino. Con loro come si è comportato successivamente?

Ho chiamato Bianchi anche quando ha scritto il suo libro autobiografico, così come ho visto e risentito Ferlaino. Quella volta la “battaglia” l’avevano vinta loro e io da giocatore ho sempre accettato la sconfitta. E poi ho la fortuna che il giorno dopo faccio un respiro profondo, una bella risata e dimentico in fretta, perché i dolori veri sono ben altri, e almeno questo l’ho imparato presto.

Non dimenticherà mai invece Maradona...

Perdere Diego è stato un grande dolore, ma lui sarà per sempre parte della mia vita e della mia famiglia. Quando penso a lui lo rivedo qui, sul prato di casa. L’estate del 2005 abbiamo passato un mese e mezzo assieme a raccontarci del passato e a ridere del presente... Sento ancora la sua risata, Diego è eterno, come il calcio.

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