sabato 27 aprile 2013
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​Da molti anni sognava di raccontare questa storia. La sua storia. La storia di un ragazzino che ha 12 anni nell’Argentina del 1979 e due genitori e uno zio membri dell’organizzazione dei Montoneros, in perenne lotta con la giunta militare al potere, sempre sulle loro tracce. Sotto falsa identità, il piccolo Juan, che con la famiglia tenta di condurre una vita normale, scoprirà amore e morte, paura e coraggio, costruendo tra gioie e dolori la sua identità di adulto. Con Infancia clandestina, che il 4 maggio inaugurerà il 23° Festival Cinema Africano, Asia e America Latina di Milano (per arrivare poi nelle sale il 23), l’argentino Benjamín Ávila firma un film che mescola invenzioni ed elementi autobiografici (ha perso la madre, scomparsa durante la dittatura, ed è stato separato dal fratello, ritrovato solo molti anni dopo) pensando a Kusturica e Hallström, Loach e Kieslowski. Lo abbiamo incontrato a Milano e ci ha raccontato perché non voleva realizzare uno dei tanti film sui desaparecidos.Il film mostra come si potesse essere spensierati anche in un momento così drammatico. La novità del punto di vista del film sta proprio in questo, raccontare la normalità delle famiglie, mostrare che il loro quotidiano non fosse tinto di paura e morte, ma esistevano anche l’amore, l’affetto, l’allegria, le risate a dispetto di tutto.Una materia autobiografica può essere difficile da tenere a bada. Come ha trovato la giusta distanza?Ho scritto il film con il mio amico brasiliano Marcelo Müller: lui non ha vissuto questo dramma e non è mai stato immerso nel contesto sociale che impregna la storia. La sceneggiatura è stata sorvegliata dunque da uno sguardo esterno molto utile per prendere le distanze dalle mie vicende personali e scegliere ciò che davvero è importante per il racconto. Nei momenti più drammatici ha usato l’animazione. Perché? È un’idea mutuata da Kill Bill di Tarantino. I disegni creano rapporto più intimo tra il piccolo Juan e lo spettatore. L’animazione è la rappresentazione della realtà e ogni spettatore è chiamato ad aggiungere qualcosa di suo a questa rappresentazione.Nel film la discussione tra madre e figlia fa emergere una domanda straziante: vale la pena combattere per i propri ideali rischiando la vita nostra e dei nostri figli?Il mondo post anni settanta ha costruito un’idea molto utile al sistema: se credi in qualcosa ti ammazzano. La società quindi non si è impegnata per paura. La discussione tra madre e figlia mostra una situazione molto normale all’epoca. La madre vuole che la figlia le affidi i nipotini, la donna vuole tenerli con sé. Può sembrare una follia, ma domandiamoci questo: se quei bambini fossero stati consegnati alle nonne cosa penserebbero oggi del fatto di essere stati abbandonati dai genitori? Mia madre decise di tenerci con lei. Una sua amica sopravvissuta mi ha confessato però che mai avrebbero immaginato quello che è successo. Ovvero che i bambini sotto i due anni venissero rubati e diventassero bottino di guerra. Erano convinti che se loro fossero stati catturati, i piccoli sarebbero stati affidati ai parenti. I giovani argentini di oggi hanno memoria di quel periodo storico?Una società non deve mai dimenticare proprio passato e l’Argentina è un esempio di ricostruzione della propria memoria. Le Madri di Plaza de Mayo e gli organismi che difendono i diritti umani hanno continuato a denunciare quanto è successo. Le nuove generazioni, anche a causa dei grandi cambiamenti sociali degli ultimi anni, vedono la politica come un cammino di trasformazione e realizzazione concreta. Non capisco i paesi in cui non esiste l’obbligo di voto, i cittadini hanno il dovere di partecipare alla vita del paese e non lasciare che una minoranza decida per tutti.Il film le ha permesso di rappacificarsi con il suo passato?Sono sereno, ma non è scattato un vero processo di catarsi. Diciamo che il film rappresenta un tacito compromesso tra me stesso e la mia famiglia.
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