giovedì 16 gennaio 2025
Il Bibliotecario di Santa Romana Chiesa, monsignor Zani, offre un ritratto fuori dagli schemi: questo luogo è la piattaforma naturale del nuovo umanesimo. E il mondo ci cerca per questo
Il Salone Sistino

Il Salone Sistino - Biblioteca Apostolica Vaticana

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Una delle parole che ricorre maggiormente nel discorrere di Angelo Vincenzo Zani è “sfida”. Da due anni l’arcivescovo di origine bresciana è Archivista e Bibliotecario di Santa Romana Chiesa, incarico a cui è giunto dopo 20 anni di servizio all’interno dell’allora Congregazione per l’Educazione Cattolica, oggi Dicastero per la Cultura e l’Educazione, prima come sottosegretario e poi come segretario. Il ritratto che fa della Biblioteca Apostolica Vaticana, una delle istituzioni culturali più prestigiose al mondo, è molto lontano da quanto in molti si immaginano. Certamente la Biblioteca custodisce tesori immensi ed è un centro di ricerca di livello ineguagliato. Ma nel suo racconto appare soprattutto come una prodigiosa piattaforma di diplomazia e trasformazione culturale. E in effetti la sua lunga storia nell’educazione sembra quella di un diplomatico: «Arrivando qui ho trovato forti connessioni con la mia esperienza precedente – spiega Zani – in particolare quella universalità che già avevo sperimentato nella Congregazione. Tutto però si radica ancora più a fondo nella mia storia personale. Da giovane sacerdote sono stato inviato dalla mia diocesi di Brescia alla Gregoriana a studiare scienze sociali: ne ho ricavato strumenti di lettura della realtà più specifici rispetto a quelli della teologia e della filosofia, e allo stesso tempo una visione ampia che mi ha spalancato gli orizzonti. Di ritorno a Brescia, venni incaricato di seguire l’Istituto “Arici”, un collegio storico della realtà cattolica bresciana, dove aveva studiato anche Montini. Proprio in occasione dell’udienza per i suoi 80 anni, Paolo VI mi disse: “Bisogna investire le migliori energie nel campo dell’educazione e soprattutto dare all’educazione a una dimensione europea e internazionale”. Di ritorno a Brescia, con l’incoraggiamento del vescovo e insieme ai professori abbiamo cominciato a creare dei percorsi di formazione europea e viaggi di studio per i ragazzi del liceo. Poi, venni chiamato alla Conferenza Episcopale Italiana all’epoca della presidenza del cardinale Ruini, per seguire le questioni connesse con le scuole cattoliche e per impegnarmi in vista di una legge paritaria rispetto all’ordinamento scolastico nazionale, raggiunta dopo un lungo lavoro di tessitura e di tappe strategiche. Quindi l’orizzonte internazionale della Congregazione per l’Educazione cattolica, la partecipazione a organismi come Onu e Unesco, l’assunzione del coordinamento mondiale delle scuole cattoliche e in particolare delle 1.400 università; ne sono venuti viaggi in tutti i continenti, là dove le sfide del nostro tempo sono davvero in atto».

Quale è la lezione più importante che ne ha tratto?

«Guardare al mondo della formazione in termini globali è stata l’occasione di sperimentare concretamente come la Chiesa svolga su questo terreno un servizio straordinario: non solo per se stessa, ma in termini veramente culturali, con un peso specifico formidabile. La Biblioteca Apostolica Vaticana non è soltanto uno scrigno infinito di tesori, ma è sempre stata un motore di elaborazione culturale delle sfide che la fede si è trovata ad affrontare nella storia, e un cortile di dialogo, un luogo di formazione per ricercatori di tutto il mondo, in esperienza diretta su materiali splendidi. La Chiesa, pur con i suoi errori e le sue difficoltà, ha sempre reagito alle grandi domande dell’essere umano, ha saputo prendere l’iniziativa, ha anche anticipato i tempi. Il rapporto tra fede e cultura è fermento e apertura verso qualcosa di nuovo. Certo, bisogna impegnarsi con entusiasmo e senza paura. Ecco, è questo il senso di ciò che sto cercando di fare in questi anni e davanti a queste due magnifiche istituzioni, la Biblioteca e l’Archivio. Quando papa Francesco mi ha chiamato qui, mi ha detto “Vai e apri!”. Un’apertura al mondo».

Il Papa lo ha ribadito anche ai partecipanti al convegno mondiale delle biblioteche che avete organizzato lo scorso novembre.

«Cosa significa questa apertura se non porsi in dialogo? E questo proprio perché l’apertura è nella natura di questa istituzione: che non è una biblioteca dei cattolici o per specialisti di teologia, ma una biblioteca che incarna la visione e il portato dell’umanesimo, ossia l’accoglienza di tutti i saperi, al di là dell’appartenenza a culture o religioni. Nei pilastri che reggono il grande salone sistino progettato da Domenico Fontana a fine Cinquecento troviamo affrescati gli inventori – tanto mitici quanto storici – degli alfabeti della storia umana. È certamente compito nostro salvaguardare e studiare questo deposito culturale, ma soprattutto rimetterlo in circolo nella contemporaneità».

Dal punto di vista dell’azione, la Biblioteca apostolica Vaticana come interpreta la Chiesa di papa Francesco?

«È un modo di intendere la Chiesa in uscita, confrontarsi con le sfide della contemporaneità, aprirsi alla collaborazione. Abbiamo elaborato uno strumento di lavoro interno in cui individuiamo tre grandi questioni che riguardano il nostro lavoro, ossia gli spazi in cui la custodia del passato deve sposare la crescita del patrimonio, in dialogo con la cultura di oggi; gli strumenti della tecnologia e in particolare del digitale, su cui la Biblioteca per altro lavora all’avanguardia da molto tempo, e l’intelligenza artificiale; le proposte culturali. Sono questioni per noi essenziali, ma non vogliamo affrontarle da soli, vogliamo invece superare il rischio dell’autoreferenzialità. Ad esempio, abbiamo aperto la Biblioteca all’arte contemporanea. Il convegno delle biblioteche, che è stato un incontro vero, lontano dalle formalità che spesso ingessano gli eventi internazionali, si è mosso precisamente in questa dinamica e ha raccolto il consenso entusiasta da parte delle ventitré biblioteche coinvolte, ma anche per la risonanza che ha avuto: ben al di là delle nostre aspettative. Questo consenso ci spinge ad andare avanti, ad ampliare e irrobustire la rete delle relazioni costruite. All’interno di questa cornice abbiamo concluso due accordi: uno con il Bahrain, che molto lo ha sollecitato e desiderato, dedicato al patrimonio culturale di lingua e provenienza araba custodito nella Biblioteca e all’organizzazione di progetti congiunti per la promozione e disseminazione culturale e scientifica; e un secondo accordo si è perfezionato con la Norvegia per la digitalizzatone di documenti della loro storia custoditi tra Archivio e Biblioteca. Questioni molto concrete che costituiscono i pilastri dei ponti che stiamo costruendo».

È come se esistesse ancora una “repubblica delle lettere”?

«Penso proprio di sì. Più passo il tempo qui e più colgo la vitalità di questo nuovo umanesimo, secondo l’espressione del Santo Padre. Come per il Patto educativo globale, è necessaria una spinta condivisa per la cultura. Bisogna sottolineare come la proposta del Patto sia nata dopo il viaggio del Papa negli Emirati Arabi, durante il quale, il 4 febbraio 2019, il pontefice ha firmato insieme al Grande Imam di al-Azhar Ahmad al-Tayyib il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune. Francesco è stato quindi in Iraq e in Bahrain. Quei tre viaggi apostolici nel mondo islamico hanno lasciato lì un segno profondo: e non è un caso che in questo momento abbiamo aperto un dialogo fecondo proprio con questi Paesi. Non solo l’accordo con il Bahrain, quindi: nello scorso febbraio ho raggiunto l’Iraq per partecipare, a nome della Santa Sede, al 17° Rabee al-Shahada International Festival e il 25 gennaio prossimo porteremo undici nostri oggetti, tra cui una rarissima mappa del Nilo, alla Biennale di Arti islamiche a Jeddah, in Arabia Saudita. In Europa non ci siamo resi conto davvero del peso e del significato di quei viaggi e in particolare della Dichiarazione di Abu Dhabi. È stato un momento provvidenziale che ha spalancato una porta straordinaria. L’accordo con il Bahrain si richiama esplicitamente al Documento sulla Fratellanza umana e alla Fratelli tutti, oltre che alla visita di papa Francesco. Senza dubbio nel mondo culturale arabo c’è fermento e attesa, e la Biblioteca Vaticana, grazie al suo patrimonio e alle straordinarie competenze di un personale scientifico interamente interno, è un referente naturale».

Nell’opinione diffusa la cultura è qualcosa di impalpabile e le biblioteche luoghi polverosi e di lingue morte. Nel suo racconto è vero il contrario. La stratificazione dei depositi della Vaticana ha creato un terreno solido e fertile per la diplomazia culturale?

«Papa Francesco non solo ci spinge con grande entusiasmo, ma spesso ci manda in visita chi accoglie in udienza, in particolare personalità appartenenti ad altre religioni. Ovviamente, le richieste che ci arrivano sono molte, con tante motivazioni e devono essere valutate in modo accurato. Ma con tutto il personale abbiamo scelto di metterci in gioco. L’unicità della Biblioteca Vaticana ne a uno strumento unico. Lo abbiamo visto a Shanghai, con la nostra collaborazione in occasione dell’anniversario di Marco Polo, nel 2023 a Taipei, e ora con il mondo arabo. Non si tratta semplicemente di portare un libro o un documento raro o prestigioso: anche questi prestiti, con tutti i contatti, gli studi e i passaggi che comportano, offrono l’occasione concreta per avviare una strategia di politica culturale importante, agile, qualificata, libera da vincoli, che può preparare il terreno ad altri incontri e altre relazioni».

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