Aldo Cazzullo e Alessandro Barbero: la sfida di raccontare san Francesco
Il santo e l'uomo: i due libri in vetta alle classifiche sono molto diversi tra loro ma trovano un punto di incontro sul fascino e il mistero che il Poverello non cessa di esercitare da otto secol

Nel racconto di Aldo Cazzullo il santo che tutti ammirano
Franco Cardini
«Perché a te?». In una fonte francescana questa è la domanda ossessiva, intrisa di uno stupito e stizzito rancore, che a Francesco viene rivolta da un suo confratello meravigliato del fatto che tanto successo e tanta gloria fossero toccati proprio a quello strano ometto non bello, dall’aspetto poco affascinante (eppure quanto straordinario fascino, quanta forza seduttiva, doveva promanare la lui!), infagottato in un abito di sacco tutto pieno di toppe colorate che lo facevano sembrar un giullare, un arlecchino. E forse è proprio un libro dedicato ad Arlecchino e dovuto alla penna di Massimo Oldoni, noto medievista, ch’è a quel che pare sfuggito all’attenzione di Aldo Cazzullo mentre invece gli avrebbe giovato. Ma è questo, e solo questo, il rilievo che sento di contestare al celebre ed eccellente giornalista piemontese. In realtà, Aldo Cazzullo è molto più che un giornalista, sia pure di eccellenza e di successo. È un vero e proprio opinion maker ormai si può dire onnipresente: e la diffusione dei suoi libri più letti o quantomeno più venduti (Il Dio dei nostri padri ha superato le 400.000 copie) la dice lunga al riguardo. Non è davvero fortuito se l’approssimarsi dell’ottocentesimo anniversario del “Transito”, la “nascita in cielo” del Povero d’Assisi, abbia ispirato insieme – nel profluvio di carta stampata, immagini, impulsi elettronici e rievocazioni che già lo stanno caratterizzando – tanto il “caso giornalistico” Aldo Cazzullo quanto il “caso accademico-mediatico” Alessandro Barbero, un altro piemontese.
Francesco il primo italiano: questo il titolo del “successo annunziato” di Cazzullo (HarperCollins, pagine 264, euro 19,50). Ignoro – sto parlando sul serio – se sia felice o infelice, casuale o voluta da qualcuno, la circostanza dell’uscita quasi contemporanea nelle librerie e sulla ribalta mediatica del San Francesco di Alessandro Barbero, a sua volta et pour cause “successo annunziato”. Ma si tratta di due opere molto diverse fra loro e pertanto concorrenziali forse a livello mercantile, tuttavia obiettivamente complementari grazie proprio alla loro reciproca estraneità: al punto da renderne consigliabile una loro lettura non già “incrociata”, bensì semmai successiva e ravvicinata. Barbero – pensino quel che vogliono pubblicisti e polemisti – è uno storico autentico e della più bell’acqua: e anche quando “fa divulgazione” (di qualità) non è mai un divulgatore ma sempre uno studioso. Cazzullo ha a sua volta la stoffa, cioè le qualità dello storico: ma la sua professione è un’altra e differenti sono i suoi metodi e i suoi intenti. Perciò, mentre in Barbero apprezziamo la sempre sorvegliata e aggiornata misura critica, in Cazzullo ci convincono la sobrietà dell’impianto propriamente erudito e la linearità delle scelte. Ben consapevole che ognuno di noi deve dare tutto e soltanto quello che può e che ha, egli non si lascia né intimidire né sedurre dall’ormai oceanica letteratura specialistica francescano-minoritica (Grado Giovanni Merlo ha saputo lucidamente spiegare la differenza tra i due aggettivi) né dal vertiginoso abisso della “questione francescana” da Paul Sabatier in poi. Gli specialisti sanno benissimo dove andarsi a cercare quel che serve loro: Cazzullo – che pure ha ben selezionato i suoi “consiglieri”, da Filippo Forlani al cardinale Zuppi – non ha alcuna ragione, salvo tutto il dovuto rispetto, di misurarsi con le loro ricerche. Per questo i suoi riferimenti sistematici alle fonti e alla letteratura moderna selezionata occupano la sola controfacciata e le pagine 261-263; quanto ai suoi autori-guida, a parte la menzione di Dacia Maraini, di Piero Bargellini, di Gilbert Keith Chesterton, tra gli studiosi del nostro tempo egli ricorda quali coloro che «meglio hanno scritto di Francesco» Jacques Le Goff e le «due Chiare», la Frugoni e la Mercuri. Non tutti gli specialisti en charge gli saranno grati per questa selezione: ma io, che non sarò mai un francescanista (e l’ho esplicitamente dichiarato in un libro di qualche anno fa), gli sono riconoscente per aver richiamato il più celebre e uno dei più cari tra i miei maestri nonché due colleghe che mi sono particolarmente care.
Certo, Cazzullo è un comunicatore di genio e di talento. Tiene molto alla sua condizione di antifascista: eppure, da ottimo giornalista qual è, non manca di apprezzare le qualità di comunicatore di un suo collega di alcuni decenni or sono. E il titolo del suo libro echeggia difatti una frase celebre attribuita di solito a Mussolini; così come un suo best seller di qualche anno fa, Quando eravamo i padroni del mondo, riecheggia decisamente il piglio del Duce. Ma anche queste scelte dipendono dalla sua profonda e disinibita conoscenza del suo pubblico.
Aspettatevi pertanto da questo libro esattamente quanto può e vuole darvi. Il suo Francesco, per quanto qua e là se ne richiamino la “pezze d’appoggio” scientifiche, è nella sostanza quello che la gente conosce, ama, apprezza e ammira in Francesco.
E se ne dichiara anzitutto, senza esitare, l’eccellenza storica e cosmica. I tre ultimi millenni sono dominati da altrettante grandi presenze spirituali: il Buddha nel I secolo a.C., Gesù nel I d.C., Francesco nel XII. Se ne richiama la genuinità “identitaria” italiana contestualizzata in un’età nella quale essa era ancora incoativa e se ne rivendicano i meriti linguistici e poetici: lui, che detestava la cultura in se stesso e nei suoi frati come negazione della Povertà, il centro della sua vocazione, in quanto la cultura è in sé stessa ricchezza e potere, vale a dire ciò al quale egli intendeva radicalmente rinunziare (e in ciò consiste la sua intrinseca antimodernità). Eppure era colto: colui che voleva presentarsi come novus pazzus nel suo secolo dominava una forte cultura giullaresca, foggiava l’idioma italico nei versi del suo meraviglioso Cantico, esprimeva con sincerità e lucidità ammirevoli – e in buon latino – il suo programma in un Testamentum che giustamente Cazzullo elegge a guida costante della sua esposizione (lo si vede dall’intitolazione di capitoli e paragrafi).
Ma da Francesco derivano francescanesimo e minoritismo, francescanità e “francescosofia” se non addirittura “francescomania”. Gli esiti del suo culto e della sua fama, dell’ispirazione che ha dato a molti vengono richiamati a rapide, robuste pennellate di sobrio colore in poche pagine finali: da Antonio da Padova a don Bosco a padre Pio fino alla potente e commovente figura del salesiano e siciliano padre Rosario Stroscio, confidente e confessore di madre Teresa di Calcutta.
Giorni fa un mio caro e vecchio amico, un ateo di rigore adamantino, mi ha chiesto perentorio e spazientito: “Ma insomma, dammi almeno tre ragioni per ostinarti a restar cattolico”. Gli ho risposto: la Vergine Maria, Francesco d’Assisi, madre Teresa di Calcutta. Non mi stupirei se Aldo Cazzullo fosse d’accordo con me.
Nella ricerca di Barbero il ritratto di un uomo in una galleria di specchi
Antonio Musarra
Alessandro Barbero ha un dono raro: ogni volta che mette mano a un argomento che credevamo di conoscere, riesce a restituircelo nuovo, diverso, più vivo. Dopo aver fatto innamorare folle di studenti e spettatori con le vicende di barbari, imperatori e battaglie, eccolo cimentarsi con il più ingombrante dei santi: Francesco d’Assisi, cui è dedicato il suo San Francesco, appena edito per i tipi di Laterza (pagine 448, euro 20,00). Quell’attributo – “santo” – è una delle chiavi per comprenderne la natura: non siamo di fronte alla biografia di un uomo – o, almeno, non solo –, ma a un viaggio nella selva delle testimonianze agiografiche che assumono la santità come dato di partenza, con l’aggiunta – fondamentale – di quanto «frater Franciscus» dice di sé stesso. Non, dunque, una “vita”, ma una galleria di specchi. Da un lato, il Francesco del Testamentum, dettato in punto di morte, dall’altro, il profilo cangiante delle legendae: da quelle di Tommaso da Celano, l’agiografo “ufficiale”, tormentato dalla richiesta di offrire al “pubblico” sempre più miracoli, ai ricordi diretti dei compagni della prima ora, alla voce discreta ma potente di Chiara, al santo “addomesticato”, innalzato a modello irraggiungibile, di Bonaventura da Bagnoregio. Un incredibile parterre di testimonianze, la cui stratificazione, dissonanza e reciproca contaminazione costituisce il fulcro della cosiddetta “questione francescana”.
Barbero fa i conti con una vicenda complessa, affrontata nell’ultimo secolo – e, in particolare, negli ultimi vent’anni – da fior di storici e filologi (ch’egli accuratamente cita e discute in nota), i cui risultati fungono da fondamento d’un libro che – diciamolo – prima o poi andava scritto. E andava scritto esattamente in questa maniera. Mi spiego. Ciò che Barbero segue è un indirizzo storiografico peculiare, che, tuttavia, ha avuto pochi emuli. Si tratta del metodo utilizzato oltre settant’anni fa da Arsenio Frugoni – padre di Chiara, il cui legame con l’autore è testimoniato dai libri firmati congiuntamente – nel suo Arnaldo da Brescia nelle fonti del secolo XII. Non una biografia “tradizionale” – che, data la contraddittorietà delle fonti, avrebbe rischiato di scivolare nella rievocazione ipotetica o, peggio, nella combinazione di voci diverse, accostate ad arbitrio – ma una lettura in parallelo dei testi che ne tramandavano il ricordo, esaminati separatamente. Ne scaturiva un palinsesto di memorie, in cui le reticenze – e, persino, i silenzi – acquisivano lo stesso peso delle parole tramandate, facendo di Arnaldo il punto focale d’un conflitto interpretativo di grandi proporzioni. Ebbene: Barbero adotta lo stesso schema, adattandolo al soggetto specifico – e che soggetto! – e arricchendolo d’una straordinaria capacità narrativa, restituendoci una sintesi originale, capace di presentare al lettore la complessità senza rinunciare alla limpidezza espositiva. È la dimostrazione che anche la storia – e la filologia –, se ben raccontate, possono avere il passo di un romanzo.
Il risultato è qualcosa d’inedito – almeno, per il grande pubblico. Un profilo dinamico, in movimento, in metamorfosi continua. L’uomo che detta il Testamentum non coincide del tutto con il santo levigato da Bonaventura; i compagni non concordano sulla sua memoria; Chiara apre uno squarcio femminile che altri tacciono. Un mosaico che lascia soltanto intuire, quasi per riflesso, il mondo di Francesco – ovvero, il mondo secondo Francesco –; ma più nelle omissioni che nelle parole, più nelle incrinature dei racconti che nelle loro armonie. Non un solo Francesco, dunque, ma i molti Francesco prodotti nel corso del tempo, affiancati l’un l’altro come voci d’un coro incapace di cantare (sempre) all’unisono. Ed è proprio in questa pluralità che risiede la forza del libro. Così, dietro l’apparente linearità del dispositivo narrativo si cela un doppio lavoro: da un lato, Barbero ricompone i frammenti e dà loro un ordine parziale; dall’altro, ne lascia permeare le dissonanze: quelle stesse dissonanze che impediscono al lettore d’identificare un unico Francesco e lo invitano, piuttosto, ad abitare il confine instabile fra memoria e interpretazione. Prova ne sia la ricca Appendice finale, in cui sono elencati in forma sinottica decine di episodi riguardanti il santo, al fine di cogliere a colpo d’occhio le divergenze e i mutamenti della memoria francescana.
L’ironia del metodo è sottile: non colpisce il Poverello, ma i nostri pregiudizi. Se i suoi frati non erano d’accordo su chi fosse davvero, perché dovremmo esserlo noi, a otto secoli di distanza? È, questa, a mio avviso, una provocazione salutare, capace di affidare al lettore la responsabilità di scegliere. O, almeno, di dubitare. Si potrebbe obiettare che, procedendo su questa strada, si rischi di perdere di vista l’essenziale: il “vero” Francesco. Si potrebbe dire, insomma, che il libro promuova una forma di “pirronismo storiografico” – un atteggiamento di scetticismo radicale nei confronti delle fonti (il riferimento è al celebre Pirrone di Elide, vissuto tra il IV e il III secolo a.C.) –, in cui tutto è relativo. Non è così. Evaporato il mito, resta l’uomo: fragile, contraddittorio, vero. Il viaggio attraverso la selva delle testimonianze – dalla voce viva di Francesco a quella dei suoi molti agiografi – lascia trapelare un personaggio poliedrico, capace di slanci di estrema dolcezza così come di asperità e spigolosità. Il ritratto d’un uomo che non si lascia ingabbiare, che vive di metamorfosi, di moti affettivi, di Passione e Pentecoste, di Eucaristia, la cui biografia plurima diventa specchio delle epoche che lo hanno raccontato. Barbero non dà l’ultima parola, né la promette; non confeziona un Francesco da vetrina. Ci consegna, piuttosto, la realtà d’una memoria contesa, dando voce storica agli sforzi della filologia. Ed è questa, forse, la lezione più preziosa: la storia non serve a rassicurare, ma a ricordarci che anche i santi restano figure vive perché contese, instabili, irrisolte. Un libro che diverte e commuove, che sorprende e irrita, e che, come credo, farà discutere a lungo.
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