venerdì 9 dicembre 2016
L’ex granata: «Debuttai il giorno che morì Gigi Meroni e feci il gol del 2-1 alla Juve mentre mio padre si spegneva. Mai avuti episodi a favore, loro sono la voce del padrone»
Agroppi: «Io, vero cuore Toro»
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Se per la musica ci vuole orecchio, per il calcio ci vorrebbe un po’ di cuore. E quello, l’Aldo da Piombino ne ha da vendere. Il cuore “matto” (si è stoppato e subito ripartito qualche tempo fa) di Aldo Agroppi batte forte da cinquant’anni per sua moglie Nadia, «conosciuta qui in piazza a Piombino quando ero un 14enne, e poi per il Toro». Nel 1967 accaddero due eventi straordinari nella vita dello “Sgarbi” del pallone (telecritico sanguigno e sopraffino): il matrimonio con Nadia e il debutto con la maglia del Torino, a 23 anni, il 15 ottobre di quella stagione indimenticabile. Ma il giorno del battesimo in Serie A del “Cotenna” («prima ero Placido, poi mi chiamò così Lido Vieri, ma quel nomignolo gli è ricaduto addosso », sorride) coincise con la tragica morte della farfalla granata, il 24enne Gigi Meroni. Uno dei tanti eroi sempre presenti nella mente del popolo torinista, specie nei giorni che portano al derby (domenica ore 15) contro la Vecchia Signora, l’odiata Juventus.

Agroppi, ma se dovesse spiegare chi è stato Gigi Meroni a un giovane tifoso granata di oggi cosa gli racconterebbe?
«Che era la nostra stella più bella. Un artista anarchico che passeggiava sotto la Mole con una gallina a guinzaglio, mostrando la zazzera lunga e il baffo presessantottino. Meroni era un campione, il “Best italiano”, un personaggio venuto al mondo per far discutere e far innamorare i tifosi. Nel mio prossimo libro – uscirà nel 2017 per Cairo Editore – ho scritto che quella rimarrà la domenica della “maledetta vittoria”. Se non avessimo vinto contro la Samp (finì 4-2) quella sera, come da copione, l’allenatore Edmondo Fabbri ci avrebbe portato in ritiro fino al lunedì mattina, e Meroni non sarebbe morto...».

Un rimpianto indelebile bagnato dalle lacrime che scorrevano lente come il Po al funerale celebrato da don Francesco Ferraudo.
«Don Francesco per me e tutti i ragazzi del Toro di allora è stato un secondo padre: ci ha cresciuti con i suoi saggi insegnamenti e il breviario con cui ci obbligava a pregare e a ricordare chi ci aveva preceduti nell’aldilà...».

“Don Toro”, quella tragica settimana del ’67 dovette pregare tanto per riportare i suoi ragazzi in campo...
«La domenica dopo la morte di Meroni ci attendeva il derby. Entrammo in campo senza più neppure una lacrima da versare, ma pieni di rabbia e di speranza vincemmo 4-0. Quello fu il derby più doloroso dei dodici che disputai (ne avrò persi tre o quattro al massimo e riuscii ad andare in gol in tre diverse occasioni). Il derby più bello? Il 26 marzo del 1972, finì 2-1 e io segnai la rete della vittoria... Ho fatto stampare la foto che tengo giù in taverna: io che calcio da terra in mezzo a un nugolo di juventini. Poteva essere la domenica da incorniciare e invece la ricordo come un’altra serata straziante».

Cosa accadde ancora di così tragico?
«Quella stessa sera partii di corsa in macchina, destinazione Milano. Andavo all’ospedale a trovare mio padre che era ormai alla fine... Feci il viaggio con Franco Mentana (il papà di Enrico) giornalista della Gazzetta dello Sport e ricordo che avrò scambiato due parole per tutto il tragitto... Di lì a poco papà morì, e allora per onorarne la memoria di uomo onesto ed eccezionale nella sua severità, promisi che mi sarei fatto crescere i baffi, come li portava lui, e li avrei tenuti per tutta la vita. Ho mantenuto la promessa ed è un ricordo dolceamaro che mi porto addosso assieme alla perdita di mia madre e soprattutto di mio fratello, morto a ventidue anni di leucemia».

Splendori e miserie di un giovane granata che in quel ’72 perse anche lo scudetto, strappato dal petto del Toro dalla Juventus.
«Ci annullarono un gol sacrosanto a San Siro contro il Milan e un altro clamoroso a Marassi con la Samp. Un certo Marcello Lippi su un mio tiro a botta sicura ricacciò fuori il pallone che era entrato di almeno 30 centimetri. Ho fatto fare l’ingrandimento anche di quella foto, e tutti i filmati dell’epoca parlano di “gol netto”. Solo Lippi ha continuato a ripetere che l’aveva respinta sulla linea...».

Lippi poi da allenatore della Juve ha vinto tutto. Ma questa storia della “sudditanza psicologica” nei confronti dei bianconeri è vera o una leggenda metropolitana?
«In dieci anni di Toro mi sono reso conto che a quelli della Juve, come si dice dalle mie parti, “devi fare i figlioli per batterli”. Se faccio marcia indietro e riavvolgo il nastro non mi ricordo un solo episodio a favore del Torino. Juventus, ma anche Milan e Inter, hanno sempre avuto gli arbitri dalla loro parte, perché in Italia sì sa, è sempre meglio tenersi buono il padrone. Quando è scoppiata Calciopoli non mi sono stupito affatto. Questo è un Paese contaminato dalla corruzione e il nostro calcio, purtroppo, ne è lo specchio più o meno fedele. E sarà sempre così. Infatti io, tranne le sintesi dei gol, una partita intera ormai mi rifiuto di guardarla».

Meglio tornare all’amarcord e ai suoi derby vintage...
«Il derby era, e spero sia ancora, fascino, atmosfera popolare e umanità, il tutto condensato in 90 minuti. I nostri erano battaglie vere che cominciavano già nel sottopassaggio del Comunale. Bettega era il più insopportabile dei bianconeri. Damiani e Causio al contrario erano simpaticissimi. Scirea un gigante in campo e un uomo straordinario fuori... Tempo fa ho scritto una lettera aperta contro quegli imbecilli che ad ogni derby continuano a intonare cori beceri prendendosela, da una parte, con la memoria del povero Scirea, e dall’altra, con le vittime di Superga. È anche per colpa di questa gente se non metto più piede allo stadio».

Per colpa di qualche potere forte - juventino Agroppi non ha più messo piede neppure nei salotti sportivi della Rai.
«Non voglio tornare sulla vicenda, mi fa troppo male... Anche perché ero il commentatore più bravo della Rai, e non lo dico io. Il grande Tito Stagno un giorno mi disse: “Aldo ti ascolto con piacere anche mentre cucino, quando parli di calcio tu l’audience si impenna, è matematico”. Succede ancora, anche se parlo soltanto nelle tv locali. In quelle nazionali non mi vogliono, lì serve gente che urla alla brasiliana o pronuncia in diretta frasi blasfeme tipo “piattone, giropalla...”. Dei signorsì sgrammaticati che non vanno mai contro i padroni, io invece polemizzo da sempre e lo faccio per convinzione, mai per convenienza».

Urbano Cairo, il padrone del Toro le piacerà visto che è anche il suo editore...
«Cairo è entrato nella jungla del calcio da Tarzan, ma senza coltello né liana. Ha pagato il noviziato. Io quando lo incontravo gli dicevo sempre: “Cairo non li fare i pluriennali. E anche agli allenatori fai solo contratti di un anno, a maggio ti siedi a tavolino, guardi i risultati e poi decidi”. Sta incominciando a capire come gira il vento nella jungla e i risultati ora gli danno ragione».

Derby di domenica: meglio Siniša Mihajlovic o Max Allegri?
«In Serie A il tecnico conta per il 20%, il resto lo fa la società: se è organizzata e tutela i suoi uomini, allora vince e convince, altrimenti salta tutto. L’allenatore più bravo del mondo è una fantasia giornalistica... “Acciuga”, Allegri, è toscano, è simpatico, un belloccio, prende tutto con leggerezza e nel calcio mediatico di oggi questi sono ingredienti basilari. Però ha la Juve alle spalle e ricordiamoci che quando era a Cagliari perse otto partite di fila e venne esonerato. Mihajlovic è stato un ottimo calciatore, è sveglio, ha carattere, però idem come Allegri, da quando allena ha avuto alti e bassi. Per ora al Toro Sinisa funziona, ma i conti si faranno a giugno».

Se si ferma a fare due conti qual è il bilancio della sua vita in granata?
«Mi manca un pezzo importante, lo scudetto del ’76. I tifosi che mi hanno sempre voluto bene lo sanno: il giorno che il Toro vinse quell’ultimo tricolore io non ero contento... Volevo essere una bandiera fino in fondo e invece mi diedero il benservito e fui ceduto al Perugia. Il mio posto lo prese Patrizio Sala, e con tutto il rispetto fu come se sul palco a cantare avessero fatto salire Pupo al posto di Frank Sinatra.... Ho pianto quando mi dissero che dovevo lasciare il Toro, oggi invece i giocatori piangono se dopo un anno che sono arrivati - e dopo aver giurato amore eterno alla maglia - , non li lasciano andare via da chi gli ha offerto un euro in più... Il cuore Toro? Esiste ancora, ma è quello dei tifosi e degli ultimi ragazzi del “Fila” come me».

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