mercoledì 2 settembre 2020
Critico e saggista, ex assessore alla Cultura del Comune di Milano, aveva 70 anni. Con "Passepartout", su Rai 3, ha rivoluzionato la narrazione dell'arte in televisione
Addio a Philippe Daverio, ha raccontato l'arte italiana agli italiani

Ansa

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Lunettes tartarugate, papillon estrosi e panciotto, l’accento esotico (era nato a Mulhouse, dove Francia e Germania culturalmente si sovrappongono, il 17 ottobre 1949): anche nel dandismo, tanto più ironico quanto più assenza del physique du rôle, Philippe Daverio, scomparso la notte scorsa a 70 anni dopo una lunga battaglia con un tumore, è sempre riuscito a sfuggire a ogni definizione.

Esordi come gallerista, non era uno storico dell’arte in senso tecnico, per quanto così si è sempre definito (si vantava per altro di non essere nemmeno laureato, e in ogni caso gli studi furono in Economia alla Bocconi), ma in quanto tale dal 2008 diretto la collana di Art e Dossier (Giunti). Critico d’arte sì ma non militante e anzi certamente poco ortodosso rispetto al mainstream imperante, non rientrava neppure nei ranghi canonici dell’intellettualità, erudito senza la connessa pedanteria, era molto attivo nel dibattito pubblico ma esterno alla politica, spiazzando però con la scelta di essere assessore alla cultura a Milano nella giunta guidata da Formentini tra 1993 e 1997 (avrebbe detto poi che era stata la Lega a sposare le idee daveriane), periodo durante il quale si occupa della ricostruzione del Pac distrutto dall'attentato di via Palestro.

Forse l’anticonformista Daverio, molto semplicemente, è stato un grande conversatore e l’ultimo grande flâneur, il gentiluomo baudeleriano che vaga lento e ozioso per le vie cittadine e osserva, guidato dalla curiosità. È così che ha raccontato l’arte e il patrimonio culturale d’Italia agli italiani: passeggiando, idealmente o fisicamente, e solleticando attraverso una invidiabile facondia l’appetito del pubblico.
Il suo programma, trasmesso da Rai3 dal 2001 al 2011 con imprevedibile successo e ancora oggi, in un tempo di trasformazione dei linguaggi e dei media, attualissimo, aveva un titolo programmatico: Passepartout, che è sì l’elemento che in quadro media tra immagine e cornice (e quindi, per traslato, tra opera e lo schermo) ma è anche la chiave che apre ogni porta.

Philippe Daverio non è stato l’ultimo divulgatore dell’arte in tv, come capita di leggere in queste ore: è stato il primo. Non è esagerazione affermare che ha rivoluzionato il racconto dell’arte nel piccolo schermo. Si provi a confrontare il boom di documentari e narrazioni su questi temi di questi ultimi anni e si noterà come Passepartout è non solo un apripista ma appare alla stregua di un vero e proprio classico del genere.

Daverio ha sistematicamente evitato il tono accademico (tono lecito, ma che ha pregi e limiti) senza mai abbassare il livello dei contenuti, esperto conoscitore del territorio lo ha esplorato in lungo e in largo portando all’attenzione quel patrimonio “minore” che è in realtà di prima grandezza, ha creato continui rimandi tra tempo e spazio: mescolando il tutto con un sicuro senso dell’umorismo e un infallibile senso del ritmo.
Grande affabulatore, già durante l’epopea di Passpertout, chiusa in maniera abbastanza improvvisa (avrebbe ritentato nel 2012 con Il capitale, ma l’esperienza non durò più di una stagione) Daverio è continuamente chiamato a intervenire su temi culturali (spesso con opinioni graffianti e controcorrente), diventa un presenza fissa dei festival culturali già a partire dalla prima ondata e si dedica a una intensa attività di saggista (anche sulla stampa: tra il 2007 e il 2008 tiene su "Avvenire" la rubrica settimanale "Guardando oltre"): tra i suoi libri più fortunati ci sono Grand Tour d'Italia a piccoli passi e Il museo immaginato. L’ultimo volume, uscito quest’anno, è Racconto dell’arte occidentale, ma Daverio aveva da qualche tempo ampliato la riflessione alla questione europea, forte del vissuto personale, confluita in libri come Le stanze dell'armonia. Nei musei dove l'Europa era già unita e soprattutto Quattro conversazioni sull'Europa (2019), il cui presupposto «è che l'Europa è la nostra casa comune, una condivisa visione del mondo, con uno stesso linguaggio artistico, musicale, architettonico e addirittura gastronomico». Sempre con lo stesso approccio, irriverente e anticonformista. Perché Daverio si è sempre divertito a fare quello che ha fatto. E per questo ha divertito il suo pubblico.

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