domenica 2 febbraio 2020
A un secolo e mezzo dalla nascita è ora di restituire alla poetessa lombarda ciò che è suo. Poco amata da autori come Gramsci, Serra e Croce, forse non le venne perdonata la sua ultima ricerca di Dio
La poetessa Ada Negri in un fotoritratto con autografo del 1904 / Fototeca

La poetessa Ada Negri in un fotoritratto con autografo del 1904 / Fototeca

COMMENTA E CONDIVIDI

“Mia giovinezza”. È il titolo. E poi l’attacco, memorabile, intenso, della sua poesia più nota: «Non t’ho perduta, sei rimasta, in fondo / all’essere. Sei tu, ma un’altra sei/ senza più fronda né fior, senza il lucente / riso che avevi al tempo che non torna, / senza quel canto. Un’altra sei, più bella». Versi scritti da una donna non più giovane ma che vede qualcosa in sé che non tramonta. Ada Negri – di cui domani ricorrono i 150 anni dalla nascita – è un caso. Era stimata da Rainer Maria Rilke. Eppure ci tocca chiamarla la amatissima e la stranamente svanita. Sì, la poetessa e novellista amata da un sacco di donne e lettori italiani prima della Prima guerra mondiale e durante il periodo tra le due guerre (morì nel 1945) è finita nella damnatio memoriae post-bellica riservata a quelli (non tutti) che avevano in qualche modo avuto a che fare con il fascismo. A dire il vero, Ada Negri fascista non fu mai, non ebbe quella tessera in tasca. Ma intrattenne relazioni con Mussolini e però anche con i grandi accusatori del Duce per il delitto Matteotti. Apparteneva a quella Italia che poi per violente semplificazioni si volle poi dividere in buoni e cattivi. Fu insomma una donna che notissima poi è sparita dietro le quinte della fama letteraria. Eppure era ben viva e stagliata la sua figura. Esiste un consistente manipolo di suoi ammiratori e estimatori che resistono alla damnatio memoriae. Silvio Raffo le dedicò una antologia presso Mondadori qualche anno fa e il sottoscritto ne curò una per Rizzoli nella collana diretta da don Giussani, suo lettore e diffusore di alcune poesie che ne avevano segnato la vita. In particolare, amava quella poesia, forse la più bella e struggente di Ada Negri, dove la poetessa mira la sua giovinezza che diviene un’“altra” con l’avanzare degli anni e delle pene, fino ad aprirsi a un inno: «E sei rimasta/ come un’età che non ha nome, umana/ fra le umane miserie, e pur vivente/ di Dio, e solo di Lui felice».

Avanzare di anni e pene che non tolsero mai vitalità e libertà alla ragazza esordiente additata sul finire dell’800 sul “Corriere della Sera” come la “vergine rossa” per la forza e la nettezza con cui fece entrare nelle sue liriche la condizione operaia. Si trattava di una cultura animata di socialismo umanitario, non marxista, una linfa che da una comune radice poi si divise nella esperienza del fascismo e in quella del socialismo in parte confluito nel Partito comunista e viva in mille sfumature dentro la civiltà lombarda. A quel sentire la vita, terragno, misero, industriale e ideale, Ada Negri diede voce con poesie e novelle che appunto ebbero larga diffusione, le fecero meritare onori, fino a essere la prima donna Accademica d’Italia. Forse fu quell’onore che pur condivideva con un altro genio di quegli anni, Luigi Pirandello, a condannarla all’oblio successivo. Pirandello, che fu tra i suoi critici più sarcastici, non subì l’onta dell’oblio, lei sì. Si tratta certo di opere imparagonabili per grandezza, ma questo non giustifica il “trat- tamento”.

Forse la parabola di questa donna intensa e coraggiosa, che nacque in una famiglia umilissima, fece la maestrina ai bambini poveri, fondò un asilo per bambine-prostitute, ebbe fidanzamenti e matrimonio infelici, ebbe due figlie di cui una morta a un anno, ebbe una rubrica sul “Corriere” dedicata a opere sociali buone, ebbe onori e successo, insomma forse questa parabola iniziata come fervente socialista e culminata in una accesa ricerca di Dio non era più interessante per i signori della cultura dell’Italia post-bellica. Forse era stata troppo “ufficiale” in tempi “sbagliati”. O forse non la capirono, non avevano orecchie e cuore per una voce segnata da un moto classico e commosso, capace di sperimentalismi prima degli “sperimentatori” (usò verso liberi ammirati da Lucini prima di lui) per la “selvaggia” forza che come parlava di condizione operaia parlava di maternità fuori dagli schemi e di Dio.

Ebbe la “colpa” d’esser nella cerchia di intellettuali protetti dalla Sarfatti, di scrivere sul “Corriere” di Ojetti. O forse chissà, la storia della letteratura è una storia come tutte, un po’ vera e un po’ falsa. Ma di fatto il nome di Ada Negri resta e restano i suoi versi. Essi arrivano in taluni casi a essere forti ora, e vivi ora. Molta della sua fama la Negri doveva alle novelle. Prose sulla povertà e sulla condizione della donna. Profetico il suo “Le solitarie” del 1917 che si inseriva insieme all’opera di altre scrittrici in un filone di letteratura femminile e spesso divorate dalle donne che scavava in quel che la società non mostrava, in quella condizione della donna descritta anche da un’altra poetessa, pure lei segnata da sfortuna critica ma ammirata da D’Annunzio e Caproni – e ciò basterebbe forse a riscrivere un poco la storia – ovvero Amalia Guglielminetti. La quale, cacciatasi sempre in guai di vario genere di amore, letteratura e soldi, scriveva raccolte come Le vergini folli, Le seduzioni e prose dedicate alle signorine. Le chiameremmo oggi le singles a coloro che erano come lei, e come la Negri: «Essa è pur sempre quella che va sola».

Donne che appunto sfidando anche la frusta di giudici severi (ebbero contro da Gramsci a Pirandello a Serra....) e sfidando anche le banali riduzioni delle letture “politiche” delle loro opere, portano fino a noi un magone, una furia, una invocazione confusa e potente. Non si può ovviamente fare di ogni erba un fascio. Ad esempio l’esperienza della maternità – anche dolorosa – ebbe per Ada Negri una importanza centrale. E forse anche per questo nella sua opera poetica, forse piu che in altre, quel magone e quella furia si compongono in un canto, in una lode alla vita e al suo autore. Si tratta di enigmi, di viaggi tra opera e biografia sempre insidiosi e in gran misura ingiusti. Conta il testo, e la voce che ci arriva e il movimento che in noi inizia a riguardo del nostro tempo e del nostro vivere. «Mia giovinezza. Non t’ho perduta, sei rimasta, in fondo/ all’essere ». Sono versi che commuovono. E interrogano.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: