venerdì 26 ottobre 2018
Il leggendario Kareem, la stella dei L.A.Lakers, folgorato dall’“Harlem Renaissance” che lo ha ispirato in campo e fuori. «Da Miles Davis ho preso lo stile, Coltrane mi ha insegnato lo scopo»
Kareem Abdul-Jabbar nell’illustrazione di Luca Trovati (Add editore)

Kareem Abdul-Jabbar nell’illustrazione di Luca Trovati (Add editore)

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Se non fosse stato - e rimane - una delle stelle più luminose del firmamento della Nba, allora Abdul Kareem-Jabbar avrebbe voluto fare «l’insegnante di storia». Il “centro” storico dei Los Angeles Lakers, club a cui ha legato il suo nome e la maglia n. “33” dal 1975 al 1989, non sarebbe l’uomo a tutto campo che è oggi se non avesse respirato il vento di ritorno dell’Harlem Renaissance. La grande rivoluzione culturale degli afroamericani che si consumò nel cuore black di New York tra il 1920 e il 1940.

Un uragano impetuoso che scompigliò le vite e i pensieri dei genitori del piccolo Kareem, figlio di una famiglia di origine caraibica emigrata agli inizi del secolo scorso nella Grande Mela in cui, il 16 aprile 1947, Jabbar nacque con il nome di Ferdinand Lewis Alcindor jr. Il gigante verticale Ferdinand a 14 anni superava già i due metri d’altezza (misura 218 centimetri) ed era il leader indiscusso della Power Memorial Academy di Harlem, formazione che trascinò alla vittoria di tre titoli consecutivi del campionato “New York City Catholic”. Il primo record del suo lungo score fu con quella squadra con la quale collezionò 71 vittorie di fila. Un predestinato, certo, che cinquant’anni fa (era il 1969), fresco di laurea alla Ucla (University of California, Los Angeles), entrò nel draft della Nba: debutto nel basket che conta nel quintetto dei Milwaukee Bucks. Era un ragazzone dinoccolato quanto ingenuo, non ancora consapevole che non avrebbe mai potuto vincere 5 titoli Nba e diventare il recordman assoluto dei cecchini della pallacanestro a stelle e strisce (38 387 punti, è ancora il primo realizzatore nella storia del basket Usa) se non avesse respirato quell’atmosfera «Rinascimentale » creata ad arte dalla sua «gente». Due anni dopo che i riflettori dei palazzetti americani già irradiavano la sua lunga, elegante effigie di mago del «gancio cielo» (il suo colpo cestistico con tanto di copyright) avvenne la conversione all’Islam. Da quel momento per l’universo, anche extrabasket, è diventato l’icona unica e rara, Kareem Abdul-Jabbar. Un Muhammad Ali della palla a spicchi il cui meraviglioso profilo dopo una mezza dozzina di libri pubblicati (tutti best seller, tradotti in decine di lingue) emerge in tutta la sua interezza nell’imprescindibile Sulle spalle dei gigantI. La mia Harlem: basket, jazz, letteratura( Add editore. Pagine 349. Euro 19,00).

Uno “zibaldone” pop, anzi no, assolutamente jazz, quello di Jabbar, scritto ancora assieme al poeta e docente dell’Orange Coast College, Raymond Obstfeld. Non è un ghostwriter il buon Raymond, infatti Kareem nel capitolo “Come gli scrittori di Harlem hanno influenzato la mia vita” ci tiene a sottolineare che una volta abbandonato il parquet e aver intrapreso la professione di cronista sportivo, attore, osservatore e allenatore «l’occupazione che più definisce tutti gli aspetti di ciò che sono in questo periodo della mia vita è quella dello scrittore». Uno scrittore ispirato dai grandi maestri della filosofia del “Nuovo Negro”, come l’amato poeta Langston Hughes. «Due grandi autori dell’Harlem Renaissance, Claude McKay e Jean Toomer, scrissero con grande intensità e sensibilità delle difficoltà di essere neri nei primi anni del XX secolo. E tuttavia non sopportavano di essere definiti “autori Negri”». Jabbar non ha mai avuto paura di sentirsi «Negro». «Negra» è la cultu- ra e la “controstoria” (perché esiste una storia tutta “Bianca” e che per secoli ha escluso gli “Afro”) che ha riscritto e diffuso in tutti gli Stati Uniti. Kareem oggi è un «modello» per tanti della sua generazione come il prof. Ron Karenga, e anche per quei ragazzi della generazione social, «look-down», ai quali lo stesso docente della Million Man March ricorda: «I nostri giovani possono essere il fato o il nostro futuro». Ma per conoscere il futuro, Jabbar ammonisce che bisogna «avere conoscenza del passato». E per lui le radici affondano nei popoli migranti che arrivarono a milioni dal Sud e dai Caraibi per stabilirsi ad Harlem.

La «Mecca dei neri», anche per chi sognava il riscatto attraverso lo sport, come i ragazzi della Renaissance Big Five. I leggendari “Rens”, prima squadra di basket interamente composta da «Negri», fondata nel 1922 da Bob Douglas: la più forte di tutti e di tutto, persino del razzismo dilagante in quegli anni di totale oscurantismo. Il basket illumina, è il linguaggio universale per arrivare al cuore del popolo americano, e oltre. «La Harlem Renaissancemi ha insegnato a non avere paura di usare il mio status di celebrità, di favorire la mia comunità». Una comunità che vive, pensa e suona a ritmo di jazz. «Quando sono nato, mio padre suonava il trombone ogni volta che poteva. Faceva spesso jam sessione alla Minton’s Playhouse sulla 118ª strada a Manhattan». Erano le jam sessione dei “giganti” di una musica rivoluzionaria, i “rinascimentali” Thelonius Monk, Dizzy Gillespie e Charlie Parker. Leggende che il “piccolo grande” Kareem ha interiorizzato e mandato a memoria come uno schema di basket «perché sono cresciuto a pane e jazz». Ha ascoltato i loro discorsi privati, ha baciato le guance di Sarah Vaughan per cui suo padre ha suonato, stretto le loro mani ancora sudate dopo un concerto. Thelonious Monk al mitico Village Vanguard Jazz Club, la casa dei jazzisti newjorkesi, lasciava un biglietto a nome del giovane Alcindor jr. «Mi hanno raccontato che nel 1980 Thelonious guardò le finali Nba perché conosceva “quel ragazzo dai tempi del Vanguard”», ricorda con orgoglio Jabbar. Il ragazzo che schiacciava a due mani quando ancora gli altri compagni di scuola facevano fatica ad arrivare sotto canestro si è nutrito di quelle sonorità, dei gesti, anche quelli impercettibili dei suoi eroi del jazz. «Miles Davis era il simbolo di tutto ciò che speravo di diventare: elegante, fisicamente in forma e il migliore nella professione che si era scelto. Lo presi a esempio. Lo faccio ancora oggi». Per il gigante del basket, il jazz è filosofia di vita e memoria pietrificata. «Il jazz ci esorta a non dimenticare quanto precario possa essere il posto di qualunque comunità all’interno della società – scrive Jabbar – . Se ricordiamo le sofferenze del passato, soprattutto se ricordiamo le cause, è meno probabile che dovremo sopportarle di nuovo».

Una presenza spirituale quella dell’eterno cestista che, nel lungo viaggio, la sua «grande anima» l’ha sempre incontrata nel tempio del jazz: era John Coltrane. «Quando strinsi la mano a Coltrane, quella sera, nella sua stretta sentii un calore che sembrava provenire da una qualche sorgente di luce dentro di lui. Se Miles Davis mi ha insegnato molto su dedizione, passione e stile, John Coltrane mi ha insegnato ad avere uno scopo. Per lui non era sufficiente suonare per intrattenere il pubblico: voleva che le sue note trasformassero il mondo...». Da un campo di basket Kareem Abdul-Jabbar ha avuto sempre la prospettiva di poter invertire la direzione, la sua e di chi lo stava ad osservare, e ascoltare. Ed è pronto a farlo ancora, cambiando ancora ruolo, «un tempo giocavo a basket. Adesso sono uno scrittore». Dalla posizione in cui si muove continua a predicare la bellezza dello sport e dalla lunetta ideale tira fuori la poesia di Maya Angelou: «Portando i doni trasmessi dai miei avi, / sono il sogno e la speranza degli schiavi. E volo / volo / volo».

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