martedì 1 maggio 2018
Nel 1968 la “Primavera” cecoslavacca, con il tentativo di Dubcek di superare il “socialismo reale”. Il progetto fallì. Ma anche i leader occidentali non capirono
Giovani in piedi sui carrarmati sovietici a Praga il 21 agosto 1968 (Libor Hajsky/Ansa)

Giovani in piedi sui carrarmati sovietici a Praga il 21 agosto 1968 (Libor Hajsky/Ansa)

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L’enciclica Centesimus annus è stata da alcuni studiosi erroneamente considerata una sorta di manifesto che suggella l’accordo fra Chiesa cattolica e capitalismo subito dopo il crollo del muro di Berlino e agli albori della globalizzazione. In realtà Giovanni Paolo II in quel testo pubblicato nel 1991 scrisse che «è inaccettabile l’affermazione che la sconfitta del cosiddetto “socialismo reale” lasci il capitalismo come unico modello di organizzazione economica».

Un appello cui purtroppo nei decenni seguenti non è seguito uno sforzo di elaborazione culturale da parte dei teologi, dei sociologi e degli economisti di estrazione cristiana. Tanto che oggi, nonostante le disuguaglianze siano da allora vieppiù cresciute, sia nel cosiddetto mondo industrializzato che nei Paesi in via di sviluppo, si dà per scontato che il capitalismo sia intoccabile, e le denunce di papa Francesco, come ieri quelle di Wojtyla, vengono snobbate o assai criticate dal mondo degli economisti. Basti pensare alle reazioni negative, soprattutto negli ambienti americani, suscitate dalla messa in dubbio della teoria della “ricaduta favorevole” espressa nella Laudato si’.

Un tentativo in questa direzione avvenne 50 anni fa in Cecoslovacchia con la cosiddetta Primavera di Praga che secondo Roberto Gatti, professore ordinario di Filosofia politica all’Università di Perugia, significò la possibilità di mettere insieme una visione socialista dell’economia e il libero mercato. «Il primo esempio di società non capitaliste sperimentato al mondo avrebbe potuto imboccare finalmente – superando le sue contraddizioni e anche le sue tragedie interne (il ’56 ungherese non era poi così lontano) – la via di un socialismo nella libertà».

Oggi ad alcuni farà un po’ sorridere leggere queste frasi che sembrano demolite dalla storia, visto che la maggior parte degli eredi della tradizione marxista si è lasciato alle spalle completamente il sogno di una società socialista e restano solo pochi e spesso patetici nostalgici del comunismo. Ma rileggere lo sforzo compiuto da Dubcek e i suoi collaboratori per costruire «un socialismo dal volto umano» può essere utile anche oggi.

Gatti lo fa nel pamphlet Praga 1968. Le idee della Primavera (manifestolibri, pagine 110, euro 12,00) e in realtà viene subito spontaneo ricordare come, nel 1969, l’editoriale del primo numero in edicola del quotidiano comunista il Manifesto avesse per titolo «Praga è sola». Desolante constatazione: Rossanda, Pintor, Parlato e C. avevano guardato con favore l’esperimento cecoslovacco, ma rimasero legati a un’impostazione ideologica e assai rigida, leggendolo alfine in chiave socialdemocratica e borghese.

Ma anche il Pci italiano perse un’occasione storica – come giustamente nota Luigi Covatta in un articolo uscito sull’ultimo numero della rivista il Mulino– e non andò oltre un blando dissenso nei confronti dell’Urss. Come noto, infatti, la Primavera di Praga durò pochi mesi e il 21 agosto 1968 i carri armati sovietici invasero la Cecoslovacchia mettendo fine al tentativo di Dubcek, che nel gennaio dello stesso anno era stato eletto segretario del Pci cecoslovacco destituendo Novotny, del tutto allineato a Mosca.

Ma cosa caratterizzò in sintesi quella che è stata definita «un’utopia concreta»? I teorici che avevano negli anni precedenti immaginato uno sviluppo diverso del “socialismo reale” erano soprattutto economisti e politologi e avevano preso atto dell’assoluta «stagnazione tecnica ed economica» che il Paese attraversava dai primi anni Sessanta, per usare l’espressione di uno dei protagonisti della Primavera, Václav Muller.

Eppure la Cecoslovacchia prima della seconda guerra mondiale era una nazione progredita che concorreva con successo con i Paesi più sviluppati dell’Europa occidentale. Ma la resistenza ostinata della classe politica al potere a ogni cambiamento, il pesante ruolo della burocrazia e il clima asfissiante di regime ideologico che escludeva ogni possibilità di libertà di pensiero impedivano qualsiasi passo avanti.

Al Congresso degli scrittori del giugno 1967 Ludvík Vaculík denunciò le deformazioni di un sistema nel quale «non era possibile da tempo alcuna attività creativa», mentre un altro intellettuale, Ivan Klima, criticò la reintroduzione della censura preventiva relativamente alla registrazione delle riviste.

In campo sociale poi tutto era bloccato. L’egualitarismo salariale aveva soffocato il dinamismo, così come il livellamento tra le professioni e all’interno delle professioni: non solo era stata pressoché eliminata la differenza di retribuzione fra lavoro qualificato e non qualificato, ma «era quasi scomparsa la differenza di retribuzione tra un lavoro fatto bene e uno fatto male» (ancora Muller). Inevitabile il «prosperare di lavori straordinari» (o lavoro nero, diremmo noi) e la mancanza di stimoli per la buona esecuzione del lavoro.

Secondo gli economisti di Dubcek, per dare stimolo e vitalità occorreva prevedere la presenza di alcuni elementi del mercato, dato che la pianificazione assoluta voluta da Marx ed Engels aveva dimostrato tutti i suoi limiti e non aveva condotto affatto a una società in cui gli uomini fossero liberi dal bisogno. Si trattava – come sostenne Ota Šik, uno dei massimi esponenti della linea riformista – «di far coesistere la priorità da attribuire a una pianificazione orientativa a livello macro-economico con il ruolo irrinunciabile del mercato», che deve continuare a funzionare per poter mirare a una produzione e una distribuzione efficienti, rispondenti alle necessità vere delle persone.

Senza addentrarsi troppo nelle dinamiche socioeconomiche e nei correttivi al sistema statalista che vennero allora realizzati, va sottolineato che il nuovo corso finì per introdurre, oltre all’integrazione fra pianificazione e mercato, all’indebolimento del monopolio autoritario dell’apparato burocratico e al tentativo di dare vita a forme di autogestione nelle fabbriche, anche elementi di pluralismo culturale e politico. Si trattava di ridiscutere profondamente il marxismo e, in una società postcapitalistica, di ridisegnarne le possibilità di realizzazione, senza penalizzare le legittime aspirazioni degli esseri umani alla libertà. Tutto fu il frutto di una collaborazione fra l’élite politica riformatrice e l’intellighenzia.

La battaglia, come detto, è stata perduta. Per colpa certo dell’Urss e della sua logica di dominio sui Paesi satelliti, ma anche per l’incapacità dei leader dei partiti comunisti occidentali che preferirono tutto sommato allinearsi con la casa madre. Come scrive Gatti, fu impedito il fitto dialogo fra la tradizione marxista e quella liberaldemocratica. Cui avrebbe fatto bene l’apporto, il più delle volte ignorato da entrambe, del personalismo cristiano e della visione politica libera dall’ideologia di Emmanuel Mounier e Jacques Maritain.

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