Ritorno a Caporetto: da orrore a laboratorio di pace
di Lucia Bellaspiga
Nel villaggio, oggi sloveno, sorge il Museo della Grande Guerra che è parte di “Walk of peace” un percorso tra sacrari e trincee

La “disfatta di Caporetto”, onta e simbolo di tutte le sconfitte. O invece “il miracolo di Caporetto”, la vittoria insperata. A seconda che la si veda dalla parte degli italiani o da quella degli austro-ungarici, in particolare degli sloveni: perché in Slovenia si trova, oggi, la piccola e amena Caporetto, anzi Kobarid, con i suoi 1.092 abitanti, il campanile aguzzo di allora, le stesse case e i viottoli che già il famoso 24 maggio del 1915, primo giorno di guerra per l’Italia, videro l’ingresso delle nostre truppe. I nostri soldati erano convinti di essere accolti a braccia aperte dai connazionali che andavano a liberare, ma che sorpresa quando invece si accorsero di essere accolti come occupanti e che lì la popolazione era slovena... Scherzi della propaganda bellica, certamente, ma anche di questa affascinante terra di confine che è il Carso, e il Collio, e la valle dell’Isonzo, dove anche oggi vivi lo straniamento dell’essere continuamente in patria ma anche all’estero, dove le strade che percorri entrano ed escono tra Italia e Slovenia senza che te ne renda conto, e nemmeno i cognomi ti aiutano a capire, perché qui la storia ha fuso per sempre le lingue e le culture. A partire da Caporetto, Kobarid se sei sloveno, Cjaurêt in friulano (che qui tutti parlano), Karfreit in tedesco.
Miracolo e disfatta, dunque. Ma oggi Caporetto è soprattutto laboratorio di pace, dove «non ci sono buoni e cattivi», come ci spiega Jaka Fili, curatore del magnifico “Museo della Grande Guerra” nel cuore del villaggio, ma solo persone, decise a promuovere una cultura di riconciliazione. Si chiama “Walk of Peace” (WoP) il percorso transfrontaliero di 500 chilometri che si snoda tra Italia e Slovenia, lungo quello che fu il fronte del fiume Isonzo, il più insanguinato, quello delle fatidiche “Dodici battaglie”. Una rivoluzione umana e anche turistica, promossa con forza dal Friuli-Venezia Giulia: cofinanziati dall’Unione Europea, i trenta percorsi del WoP costituiscono un unico gigantesco museo all’aperto che collega oltre 300 tra trincee, fortificazioni e luoghi di battaglie, cimiteri, il sacrario di Redipuglia con i suoi 100mila morti… ma anche panorami la cui intatta bellezza rende ancora più assurdo ciò che qui avvenne un secolo fa. «Il confine che oggi qui separa Italia e Slovenia è lo stesso che allora separava il Regno d’Italia e l’Impero Austro-ungarico. Significa che 600mila giovani sono morti per conquistare un metro e mezzo di territorio sul monte Kolovrat», osserva ancora Jaka Fili. Tra foto d’epoca e plastici che con effetti luminosi ricostruiscono gli spossanti combattimenti ad alta quota tra il 1915 e il 1917, il museo ha conquistato il premio del Consiglio d’Europa per il suo messaggio innovativo: «Non vincitori e vinti, solo la follia disumana di ogni guerra». Se fuori da qui il fiato si ferma davanti alla bellezza di cime e gole attraversate dallo smeraldo liquido dell’Isonzo (Soca in sloveno), nelle sale a lasciare ammutoliti sono le mazze chiodate con cui si finiva il nemico, come nel Medioevo; le enormi trappole per orsi, usate però per catturare uomini; le foto clandestine di volti stremati sul Monte Rosso, 2.164 metri da scalare ogni giorno a 30 gradi sotto zero, trascinando tonnellate di materiale bellico («nelle foto ufficiali era obbligatorio sorridere»); i bambini soldato, anche loro sorridenti, reclutati dall’impero ormai allo stremo; infine i visi deturpati dalle esplosioni, senza naso, senza labbra, senza più faccia, il vero volto di ogni guerra.
E poi, tra tanto dolore, faville di umanità. Come la storia del soldato austro-ungarico sloveno Gabrijel Bukovnik, nella vetrina le protesi in cuoio che sostituirono i suoi piedi e le sue braccia: «Il 31 agosto 1917 fu ferito sul Monte San Gabriele e lì soccorso dai soldati italiani, i nemici, che lo portarono all’ospedale militare di Cividale, dove venne operato e curato. Rimasto invalido ma salvo, dopo il conflitto fece il tabaccaio».
A raccontare la disfatta (o il miracolo) di Caporetto proprio sul luogo della battaglia, c’è anche lo storico Alessandro Barbero, ad ascoltarlo italiani e sloveni insieme. Ripercorre con pathos le famose “Dodici battaglie dell’Isonzo”, le prime undici con gli italiani che attaccano, più forti dei nemici, ma «se si chiamano tutte battaglie dell’Isonzo è perché per due anni e mezzo si resta sempre lì. E si muore». Poi la dodicesima, Caporetto appunto, il 24 ottobre 1917, quando i tedeschi accorrono in aiuto agli alleati austriaci e si abbattono sui nostri soldati con i gas tossici. «La rotta di Caporetto diventa per noi proverbiale non per i 40mila morti italiani, ma per l’apocalisse che ne segue – spiega Barbero –, cioè i 350mila sbandati che gettano le armi convinti di aver perso la guerra e poter tornare a casa, il mezzo milione di profughi civili in fuga, i 260mila prigionieri nelle mani dei tedeschi. Finiranno a Mauthausen, campo di concentramento che 25 anni dopo i nazisti si troveranno pronto». Il resto lo combina il generale Cadorna, che diffonde un bollettino in cui accusa ingiustamente i soldati di essersi rifiutati di combattere, «bollettino bloccato subito dal governo ma all’estero ormai si era diffuso… Per assurdo i prigionieri di Caporetto giunti a Mauthausen vennero insultati dai soldati che erano già lì».
Mai come di questi tempi, quel che avvenne qui è lezione e monito. «L’Italia con uno sforzo immane aveva messo in piedi un esercito immenso e alla fine la guerra la vincemmo». A che prezzo lo si vede a Redipuglia (Gorizia), altra tappa del “Walk of Peace”, il più grande sacrario militare italiano, inaugurato nel 1938 da Mussolini per celebrare la vittoria di vent’anni prima. I ventidue imponenti gradoni cadenzati dalla scritta PRESENTE ripetuta in modo ossessivo sono la tomba di 100mila morti: 40mila sepolti in ordine alfabetico, 60mila ignoti. Qui venne il 20 maggio del 1966 un ottantenne Giuseppe Ungaretti, tornato sul Carso dopo 50 anni dalla Grande Guerra. Ad invitarlo era stato l’Istituto per gli Incontri culturali mitteleuropei (Icm) di Gorizia, che attraverso la poesia puntava ad abbattere la Cortina di ferro e riproporre la fratellanza. «No, no, no, la morte è più semplice», scosse la testa il poeta, «li hanno messi in fila anche dopo morti!». Alla città di Gorizia nell’occasione dedicò il suo testamento spirituale, dal quale in questo 2025 ha mosso i suoi passi Nova Gorica/Gorizia Capitale europea della Cultura, la prima transfrontaliera: «Gorizia non era il nome di una vittoria – scrisse –, ma il nome di una comune sofferenza, la nostra e quella di chi ci stava di fronte e che dicevano il nemico, ma che noi, pur facendo senza viltà il nostro cieco dovere, chiamavamo nel nostro cuore fratello».
Il “Museo multimediale del San Michele” è forse l’esperienza più toccante del “Walk of Peace”. Casco e speciali occhiali consentono di uscire dal nostro mondo ed entrare di netto in piena guerra, tra granate che ti piovono addosso, gas asfissianti, spari, compagni che muoiono. Non è una proiezione, è esperienza diretta in chiave immersiva, ti ci trovi dentro in carne ed ossa, vivi la paura, per mezz’ora (chi ce la fa, i più impressionabili rinunciano) impari davvero che cos’è la guerra. Un soldato ferito ti cade addosso e tu istintivamente tendi le braccia per prenderlo. Un altro soffoca nei gas ma un compagno accorre (e tu ti scosti per farlo passare), gli preme sulla bocca il sacchetto pieno d’aria… Il fronte sul San Michele era solo di cinque chilometri, un centesimo dell’intero fronte, ma ci morirono così 120mila giovani. Su questo confine oggi si ritrovano i discendenti di quegli uomini – italiani, ungheresi, austriaci, sloveni, croati, serbi, tedeschi, polacchi, rumeni, cechi, slovacchi, ucraini... La morale di tutto questo l’ha tracciata Janko Petrovec, giornalista e artista: «Forse la cosa più onesta che qui stiamo facendo è avvicinarci alla storia non soltanto per sapere che cosa sia accaduto e quando, ma soprattutto per capire che cosa può di nuovo accadere».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Temi





