Montale e la fantascienza: il lato oscuro del Nobel
Nelle poesie troviamo universi parallelli, nelle prose dischi volanti. Un tratto ironico, cupo e gnostico, che lo apparenta a Philip K. Dick

E se ci fosse un rapporto, sinora inesplorato, tra Eugenio Montale e la fantascienza? Pensiamo alla poesia Tempo e tempi, scritta il 2 dicembre 1968 e compresa in Satura: «Non c’è un unico tempo: ci sono molti nastri / che paralleli slittano / spesso in senso contrario e raramente / s’intersecano». Mondi simulati o multiversi: a Montale, imbeccato da Sergio Solmi e Jorge Luis Borges (Il Giardino dei sentieri che si biforcano), non sfugge certo la teoria generale della relatività einsteiniana, tra singolarità primordiali, big bang ed espansioni universali. Renato Giovannoli, scrittore ed esperto di Science Fiction Studies, presenta questa originale prospettiva d’approccio ai testi del poeta genovese in Destini incrociati. Montale e la fantascienza (Medusa, pagine 366, euro 26,00). Il corposo volume ci indirizza nel cuore del neognosticismo montaliano, tra demiurghi, gerarchie cosmo-teologiche, space platforms, angeli e astronavi, catastrofi e macchine del tempo, tenendo a mente con lucidità che «nessun UFO» attraversa l’«opera poetica di Montale», e tuttavia che i destini sembrano – appunto – incrociarsi.
Osserva Giovannoli: «La teoria temporale enunciata da Montale in Tempo e tempi è quasi perfettamente isomorfa alla teoria degli universi paralleli». Anche nel suo sequel un po’ attorcigliato, una lirica composta undici anni dopo (1979), “Tempo e tempi II”: «Da quando il tempo-spazio non più / due parole diverse per una sola entità, / pare non abbia più senso la parola esistere». Influenzato dalla fantascienza anglosassone e da Fredric Brown («La terra sarà sorvegliata / da piattaforme astrali»), Montale – particolarmente il terzo Montale, quello da Satura in giù – è chiuso in un «triangolo comparativo» che comprende la «metafisica tipografica», le già citate pulsioni esoteriche e il contatto, seppur sulfureo, con l’astrofisica.
Se gli extraterrestri in carne e ossa non popolano le liriche (se non nella forma di «divinità in incognito»), è però vero che «marziani» e «dischi volanti» aleggiano allegramente nella prosa montaliana; si pensi al racconto “Il disco volante”, pubblicato sul “Corriere d’Informazione” il 16-17 aprile 1952: «Dalla conchiglia sono scesi strani esseri che sembrano avere una forma intermedia fra il polipo e il manichino di De Chirico, con molte teste, molti tubi, molti occhi, molte gambe. Parlano sternutendo, svolazzano intorno alla conchiglia». La fantascienza di Montale non può che essere «alla rovescia», antinomica, «sociologica»: big crunch, cosmologia tenebrosa percorsa da un «senso morale» e dal fantastico leopardiano, echi provenienti da Denis Saurat e dalle distopie huxleiane, ma soprattutto un sentimento di «Cospirazione Universale», di pessimismo gnoseologico per l’incipiente «uomo robot». Il respiro dello studio di Giovannoli è molto ampio (spesso ironico) e considera l’esplorazione del tema in Fellini, Buzzati, Arpino, Pasolini, Moravia, Levi, Landolfi, Calvino. Al di là dei tropi e degli avvitamenti nella science fiction, la relazione concettuale che meglio apparenta un Philip K. Dick a Montale è proprio quella del revival gnostico: nondimeno, nel nostro poeta è sempre in atto una relazione lunare, scettico-paradossale, filtrata dall’autoconsapevolezza di un’insussistenza di fondo e da un atteggiamento fieramente anti-dottrinario. «Teppistico», direbbe Pasolini.
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