L'antropologia filosofica di Landsberg contro il solipsismo del soggetto
Esce lo scritto, inedito in Italia, con cui nel 1934 il pensatore tedesco vittima del nazismo elaborava la sua versione del personalismo sulla scorta di Romano Guardini

La città di Pau si trova alle falde dei Pirenei, nella Nuova Aquitania, in Francia. È lì che il 23 febbraio 1943 viene arrestato dalla Gestapo Paul Richert. Il nome non dice nulla perché falso, ma sotto quelle mentite spoglie si nasconde uno degli astri nascenti della filosofia del Novecento, Paul-Ludwig Landsberg, che non avrà modo di vedere la sua parabola teoretica compiersi. Morirà il 2 aprile 1944, rinchiuso nel lager di Oranienburg-Sachsenhausen, vicino a Berlino, ad appena quarantatré anni. Fuggito dalla Germania, a seguito della presa di potere di Hitler già nel 1933, in seguito all’interdizione all’insegnamento inflittagli per le sue origini ebraiche, si rifugerà in Svizzera. Da lì proseguirà in Spagna, dove lavorerà presso le università di Santander e di Barcellona, per riparare infine in Francia nel 1936, allo scoppio della guerra civile. A Parigi porterà il suo contributo al personalismo di Emmanuel Mounier con la collaborazione alla rivista “Esprit” ma, in conseguenza dell’invasione del giugno del 1940 da parte del Terzo Reich, per le sue origini tedesche, verrà internato dai francesi, insieme alla moglie, Magdalena Hoffmann, presso i campi di prigionia di Audierne, nel Finistère, lui, e Gurs, lei. Landsberg riuscirà rocambolescamente a evadere poco dopo per correre in soccorso della sposa che nel frattempo era stata ricoverata presso l’ospedale psichiatrico di Pau. Per consentirgli di mettersi al riparo, Jacques Maritain e Max Horkheimer gli procurano il visto per l’espatrio e un contratto di docenza negli Stati Uniti, ma Landsberg si rifiuterà di partire per non abbandonare la moglie alla sua sorte.
Allievo di Edmund Husserl e, soprattutto, di Max Scheler Landsberg troverà un maestro anche in Romano Guardini, che nel 1921 lo appoggerà nella pubblicazione, dopo la conversione al cattolicesimo, del suo primo libro, Il mondo del Medio Evo e noi (Morcelliana), espressione della sua vicinanza allo Jugendbewegung, in cui auspica una reazione rivoluzionario-conservatrice all’epoca contemporanea. L’engagement, termine da lui stesso coniato durante l’esilio d’Oltralpe per indicare l’impegno politico, non gli precluderà di salire in cattedra all’Università di Bonn già a ventotto anni. Il lavoro accademico gli consentirà di dedicarsi al suo libro fondamentale, tradotto ora per la prima volta in italiano per Rubbettino, Introduzione all’antropologia filosofica (pagine 262, euro 22,00), con introduzione e cura di Massimo Serretti e traduzione di Ellero Babini.
Benché ne riporti l’espressione, la prospettiva aperta da Landsberg si discosta da quella inaugurata qualche anno prima, nel 1928, da Scheler con La posizione dell’uomo nel cosmo e da Helmuth Plessner con I gradi dell’organico e l’uomo e poi proseguita, negli anni a venire, da Arnold Gehlen. Quella del “personologo”, così Babini individua la posizione di Landsberg per non schiacciarla nemmeno sul movimento fondato da Mounier, presenta una cifra del tutto particolare che al confronto con le scienze naturali preferisce ampiamente muovere dalle intuizioni antropologiche sviluppate da Romano Guardini e dal teologo protestante Friedrich Gogarten. A caratterizzare la ricerca di Landsberg, oltre la polemica contro il soggetto solipsistico protagonista di ampia parte della filosofia moderna e l’idealismo, è una proposta teoretica che non abbandonerà neppure durante l’esilio. Vale a dire una prospettiva che apre l’uomo nella sua essenza al divenire e non lo chiude nella sua immanenza né nella sua staticità. «L’antropologo dell’essenza - precisa Landsberg - può immaginarsi che come nel pre-uomo è spuntato fuori il nuovo principio dell’uomo, così anche l’uomo possa venir ancora una volta sovraformato a partire da un nuovo e imprevedibile principio, ad esempio dalla divinità». L’irrompere di questo «nuovo principio» porta a una trasformazione dell’esistenza dell’uomo che, in entrambi i casi, assumerebbe i tratti, secondo Landsberg, di una trasformazione «sopraelevante» verso una nuova modalità esistenziale. Per questo il compito del «diventar uomo» rappresenta, per il pensatore tedesco, già di per sé una tappa del «processo di conversione». Per adottare questa visione, l’uomo deve intendersi come un accadere e non come qualcosa di dato una volta per tutte. Tuttavia concepire l’uomo come un accadere non significa tenerlo in balia del caso e degli eventi. E ciò perché egli ha una «destinazione» che, come precisa bene Babini nell’introduzione, «non è solo l’esito finale, quanto ciò che determina ogni singolo istante del suo essere e esistere reale». Momento indispensabile per compiere il cammino previsto dalla destinazione è l’autocomprensione dell’uomo da intendersi non come atto intellettualistico ma come conseguenza di un’«esperienza del mondo interiore» della «coerente unità dell’essere in divenire». Solo così, dinanzi allo sguardo dell’uomo, si schiude la prospettiva che «noi siamo dati a noi stessi ma dobbiamo divenire coloro che siamo», scoprendoci uomini. Forte della sua destinazione, l’uomo non deve arrendersi dinanzi agli eventi della natura e della storia. Non deve subirli, nemmeno fossero ciechi rovesci della casualità naturale o storica perché «la sua essenza è data come compito» per potere diventare uomo «passo dopo passo». Compito e missione che non si esauriscono tra le pagine di libro, ma richiedono, per realizzarsi, il palcoscenico della storia. E Landsberg lo ha dimostrato con la sua vita.
Un pensiero questo non consunto dal tempo. D’altronde, come ammonisce Landsberg, nella riga d’esordio del libro, «il cambiamento dell’umanità nella storia dell’uomo pone sempre come un nuovo compito alla filosofia l’interpretazione della sua essenza». Incombenza vitale nel 1934, anno della pubblicazione del testo, scritto nel 1932, e che i novant’anni trascorsi da allora non hanno eclissato o reso vana.
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