L’altro Lussemburgo: arte, natura e fede

Il piccolo Stato, simbolo dell’utilitarismo finanziario globalizzato, con due mostre celebra la «mano alla radice del bello»
December 2, 2025
L’altro Lussemburgo: arte, natura e fede
Tereza Stetinová, “‘Prayer” / Leja Berková
Non pochi scienziati ricordano che entriamo nell’Antropocene. Ovvero, l’era dell’impatto umano sulla Terra divenuto persino geologicamente visibile. Ma su questo sfondo, saranno gli artisti a spingerci definitivamente a preservare un pianeta che rischia la pelle?
Nel Lussemburgo incastrato fra Belgio, Francia e Germania, l’interrogativo ha dominato due kermesse d’autunno in crescita. Una fiera con nomi d’ogni continente, la “Luxembourg Art Week”. Ma pure, negli stessi giorni, la biennale dei mestieri d’arte “De Mains de Maîtres” (“Da mani magistrali”), che ha instaurato un dialogo fra i creatori residenti nel Granducato, spesso d’origine internazionale, e quelli di un altro Paese europeo invitato: per questa quinta edizione, la Repubblica Ceca.
Il Lussemburgo è grande quanto la provincia di Piacenza. Eppure, forse anche per via di questa compattezza, è divenuto un “libro aperto” sulle svolte epocali europee. Francese e rurale fino al tracollo napoleonico, veniva chiamato «dipartimento delle foreste». In seguito, fra Ottocento e Novecento, s’industrializzerà a marce forzate, fra miniere e siderurgia, con notevoli tracce impresse nel paesaggio. Oggi, prevale il terziario finanziario delle alte vetrate a specchio nella capitale omonima. Un ciclo completo, si direbbe: foreste, poi ciminiere e grattacieli. Di che far sperare quasi che la ruota possa girare di nuovo verso il polo naturale.
In proposito, nel Granducato segnato pure dalle controversie fiscali transfrontaliere, gli artisti invitati hanno lanciato un messaggio trasversale: indietro tutta. Si torni alla natura delle origini. Una natura desiderata, sognata, contemplata pure per riannodare fili spirituali rimasti in sospeso.
«Natura singolare» è proprio il titolo della biennale dei mestieri d’arte, scelto dal curatore Jean-Marc Dimanche, che ci ha confessato: «È un tema un po’ provocatorio, dato anche il luogo in cui siamo». La kermesse ha infatti trovato casa nel grandioso palazzo storico ottocentesco da cui erano dirette le potenti acciaierie Arbed, prima di divenire più recentemente sede della Banca e Cassa di risparmio di Stato del Lussemburgo. Per Dimanche, si tratta oggi di un luogo ideale per valorizzare gli artigiani, da includere «fra coloro che, accanto agli agricoltori, hanno forse meglio rispettato le regole di buona condotta verso il mondo vivente, e questo fino alla metà del Novecento e l’avvento del consumismo nei nostri Paesi detti civilizzati». Inoltre, come ha sottolineato il poeta Paul Mathieu, altro ispiratore dell’evento, quella artigianale è una manualità che cerca «di iscrivere la bellezza e la creatività al centro dell’utilitario, in modo che vestiti, gioielli o recipienti si smarchino dalle loro funzioni iniziali per sublimarsi in uno slancio estetico». L’ordinario che decolla verso un altrove. Così, un piccolo Stato oggi simbolo dell’utilitarismo finanziario globalizzato celebra la «mano alla radice del bello».
In mostra, ad esempio, Ricordo della corteccia, della ricamatrice Louise Aimard, opera in cui seta, lana e cotone sono intrecciati con perle, paillettes, gioielli, cordicelle, per imitare la rugosità di un tronco d’albero. Con un procedimento d’impronta naturale, le costumiste Anne Bauler e Denise Schumann hanno invece stampato delle foglie sul lino e la seta impiegati per una specialissima collezione. La pittrice Marie-Isabelle Callier ha creato paraventi con temi vegetali e floreali quasi ipnotici. Enigmatiche sono poi le sculture vagamente zoomorfe del pluripremiato Gérard Claude, realizzate con terracotta ed elementi ossei o cornei. Ricchi come territori in miniatura si rivelano da vicino i tappeti e le stuoie di Sandra Rasende, originaria del Mozambico, che intreccia con perizia elementi tessili e naturali, come strati essiccati di muschio.
Ad interpretare in modo radicale il senso dell’evento, iniettando forti dosi di speranza, è stato ancor più il giovane Yanis Miltgen, con la serie technica natura, allestendo dei bonsai di grande leggerezza a partire da schede madri, tastiere ed altre componenti di computer. Un soffio di naturalezza dai terminali di un’epoca con il fiatone. Sul piano plastico, buca lo sguardo anche Danza collettiva, creazione in legno d’acero della scultrice Nadine Zangarini.
Ma l’apertura alla trascendenza è giunta soprattutto dall’Est, grazie a creatori già affermati nella Repubblica Ceca. «Quella è santa Ludmila, la nostra patrona nazionale, che veglia su quanto facciamo», ci dicono quando giungiamo nella sezione, mostrandoci l’oblunga statua lignea di Jirí Kobr, quasi sospesa a mezz’aria. Da parte sua, con Prayer, Tereza Stetinová offre un icastico sunto della fede, associando un paio di mani giunte traversate da una corda bianca di lino e lana che si perde fra passato e futuro. Come dire che il credere è nell’intima natura singolare tanto degli individui, quanto delle società. Decisamente esistenzialiste e amletiche, poi, le maschere bianche di vetro di Martin Janecky.
La Luxembourg Art Week si è trasformata anch’essa in un pullulio diffuso di naturalità sul punto di tornare, con un’attenzione persino per la vita di alghe, batteri e microbi vari. E in questo autunno, fra gli artisti ospitati presso la residenza e gli atelier di Neimënster, ai piedi di una delle scarpate attorno alla capitale, colpiscono gli armonici intrecci naturalistici di cordame della giovanissima sarda Benedetta Cocco, le penne di piccione incollate al filo spinato della scultrice tedesca Nadine Baldow, accanto all’ironia delle due disegnatrici ucraine del collettivo Etchingroom1, con la loro spassosa serie di consigli sarcastici per i giovani “vampiri” un po’ in crisi del turbocapitalismo.
Insomma, di che scombinare gli usuali schemi lussemburghesi, nonostante la durata breve delle due kermesse, concentrate nella terza settimana di novembre. A riprova di un’arte sempre capace di operare fin nei più minuti interstizi, come uno sciame mellifero che colonizza le città, nonostante tutto.

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