Così, con la luce della pietra, Saint-Denis infiammò l’Europa

A otto chilometri da Notre-Dame sorge l’abbazia voluta da Sugero nel XII secolo: bellezza gotica che ancora affascina
October 24, 2025
Così, con la luce della pietra, Saint-Denis infiammò l’Europa
La basilica di Saint-Denis / WikiCommons
Anticipiamo parte della lezione dedicata alla magia della luce riflessa nelle pietre delle cattedrali medievali, che lo storico Marco Meschini terrà domani alla Festa del libro medievale e antico. L’evento si svolge da oggi a domenica a Saluzzo (Cuneo).
Saint-Denis. 8 chilometri verso Nord a partire da Notre-Dame, vale a dire dal cuore di Parigi. Una volta, nel pieno del Medioevo, raggiungerla avrebbe significato uscire dal caos della città più popolosa d’Europa – circa 100.000 abitanti a inizio XIII secolo – per rifugiarsi nel silenzio dei boschi, il verde del fogliame e lo scorrere della Senna, prima di vederla sorgere come d’incanto tra i profili bassi del monastero e degli altri edifici scolpiti per l’uomo: la basilica custode delle reliquie del santo patrono di Francia – san Dionigi, appunto –, sfidava lo sguardo al suo solo apparire.
 
Oggi, le stesse pietre resistono alla pressione demografica – il quartiere di Saint-Denis è ormai inglobato nella grande Parigi – e ai colossi contemporanei come lo Stade de France, a 1 sola lega di distanza, con la sua massa a misura delle masse del nostro tempo – 80.000 spettatori, praticamente l’intera capitale di allora. Là dove regnava il silenzio ed il canto dei monaci, prevale senza sosta il rumore febbrile della metro e delle automobili, il puzzo dei tubi di scappamento, gli odori e i profumi più africani e mediorientali che europei di una zona ad alta densità di immigrati e figli di nuovi cittadini. Poliziotti armati di tutto punto ad almeno 4 angoli intorno.
Banlieue: in origine il termine indicava il “territorio fuori le mura”, dal latino medievale banleuca (ovvero bannum leucae, cioè «bando di una lega», anche se qui le leghe sono oltre 3), a significare la giurisdizione cittadina su un’area circostante le mura, fino appunto ad una lega teorica di distanza. Oggi indica genericamente le aree periferiche, senza sapere che anche quella periferia contiene in sé un centro: Saint-Denis.
 
Torno alla sua porta per l’ennesima volta, come torna un pellegrino alla sorgente e non sa, o non distingue bene, se essa sia la meta o la soglia di casa. O tutt’e due le cose insieme. Per quel poco che conta, tutto il mio animo è teso al nuovo incontro: decenni di studi, gli echi nella mente e nella memoria, il desiderio di… In quell’istante arrivano loro: sciame di giovani d’oggi, canotte, espadrillas, vociare scomposto, risate e insulti senza soluzione di continuità, gomme masticate a bocche aperte, luci di smartphone ovunque, soprattutto nei loro occhi. Mi si stringe il cuore. Avanzano con me, ad un ritmo che non è il mio, ed io che non riesco a sottrarmi al loro: sono ovunque, il pellegrino scopre il calvario. Infine arriva la croce: «Ho cagato da dio», sussurra un’adolescente all’amica. Sorridono complici. Io sto per svenire.
 
Poi, quella stessa ragazza si ferma un attimo, giusto davanti l’altare maggiore. Siede le natiche su di una panca e alza gli occhi. L’istante dopo, la sua bocca si apre senza un comando e la vocale del miracolo esce limpida e chiara: «Oh…».
 
Non so se quel seme attecchirà. Non so – per quanto lo speri e persino lo preghi – se quelle stesse labbra aperte sul mistero siano in grado di ricevere una grazia, oltre che di emettere un vagito. Quello che so è che, nella cacofonia del nostro mondo contemporaneo, ho ricevuto in dono una crasi del tempo, e forse della mente. Perché mi sono tornate al cuore le parole – appena più raffinate – di chi quello spazio lo ha concepito, circa 900 anni fa: «Così, quando – per la delizia che provo nella bellezza della casa di Dio – lo splendore delle gemme multicolori mi ha distolto dalle cure terrene, e una nobile meditazione mi ha indotto a riflettere sulla diversità delle sante virtù, trasferendo ciò che è materiale a ciò che è immateriale, allora mi sembra di vedere me stesso dimorare, per così dire, in una qualche strana regione dell’universo» (Libro sulle cose compiute durante la sua amministrazione, XXXIII).
 
Sono parole di Sugero, abate e committente della stessa Saint-Denis, che trasformò, negli anni Quaranta del XII secolo, la chiesa abbaziale del vecchio mondo nel primo, incandescente seme di un nuovo mondo, che oggi chiamiamo gotico francese, ed europeo. Sugero e i suoi architetti presero il Vangelo di Giovanni («In principio era il Verbo… In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini… La luce splende nelle tenebre») e le visioni delle Pseudo-Dionigi Areopagita (I nomi divini e La gerarchia celeste: «L’universo è come uno zampillare di luce che discende a cascata»; e ancora: «Questa irradiazione che proviene da Dio suscita un movimento inverso che parte dalle profondità dell’ombra per risalire verso la sua sorgente») e riplasmarono le parole in archi e volte, pilastri e vetrate, sino a trasformare lo spazio del sacro in una regione a se stante del cosmo. Proprio qui, sul nostro piccolo, fragile pianeta.
 
Così continua il geniale abate: «Io, qui, dimoro in una qualche strana regione dell’universo, che non esiste né interamente nella feccia della terra, né interamente nella purezza del Cielo; e mi par di capire che, per grazia di Dio, io possa essere innalzato da questo mondo inferiore a quello superiore». Ecco: non so cosa sia del destino di quella ragazza e dei suoi amici, delle sfide che la vita le offre o le impone: so che è stata, foss’anche per un istante solo, sfiorata da un mondo, un gesto, uno sguardo che l’ha colta così com’era, e l’ha trovata degna di entrare nel regno del sacro. Dove la luce bagna ogni cosa – sia essa piombo o pietra, o carne d’uomo – e tiene a battesimo l’effimero del giorno e sussurra una voce inudita: «Tu sei degno».
 
Così, non fu per imitazione, ma per sfida e impellenza che il “modello” Saint-Denis si diffuse come fiamma in tutta l’Europa del tempo, attecchendo e risuonando nei più diversi contesti culturali: dal cuore della Francia dei Capetingi – Notre-Dame di Parigi e la più tarda Sainte-Chapelle non ne sono che gli esempi più celebri – all’Inghilterra dei Plantageneti, all’Italia dei Comuni e del Papato, all’Impero germanico e l’Iberia della fine del mondo. Una diffusione e uno sviluppo che hanno pochi eguali nella storia dell’arte e dell’architettura, e della cultura in genere, dato che ogni cattedrale portava con sé non solo la maestria degli architetti e dei capomastri, degli artigiani e degli artisti, ma anche lo studio indefesso dei maestri universitari e le note inarrivabili dei musici di un altro modo – un altro mondo? – di concepire musica, con tutto il loro corredo di organi e voci.
 
Perché fu – ed è – nient’altro che questo, il “gotico” – che poi di “barbaro”, come voleva il Vasari, non ha proprio nulla: giacché semmai siamo noi i barbari –: un micro cosmo nel macro Cosmo, un impietrare, un invetrare, un inverare uno sguardo possibile sul mondo e i suoi abitanti, un dire sommesso e possente che ogni figlio di donna è degno di entrare e udire la Voce, d’esser bagnato e ritessuto di Luce, lui che è figlio della Luce, e toccare con mano i segni dei chiodi nella Carne risorta. Un inno sempre nuovo alla Bellezza del Cosmo e del suo Creatore, un sussurro millenario agli orecchi e ai cuori degli increduli: di tutti noi, noi tutti. Un atto d’amore. È questa l’unica cosa che resta, l’unica cosa che conta, alla fine del viaggio.

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