sabato 30 settembre 2017
«Salviamo la memoria del cinema italiano. Cineasti e attori sono gli unici che possono insegnarlo ai giovani»
Cristiana Capotondi

Cristiana Capotondi

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Gli intellettuali italiani solo nel 1927, in uno storico numero di “Solaria” (tra le firme anche Eugenio Montale), affermano che il cinema non solo è intrattenimento ma «anche arte». Notevole svolta teorica, ma in netto ritardo rispetto ad altri intellettuali europei, come i francesi, i russi i cecoslovacchi, gli ungheresi. Così anche sul versante educativo siamo stati e siamo in ritardo: il cinema, in Italia, sino ad oggi, non è ancora materia obbligatoria, mentre in altri Paesi figura almeno come corso opzionale. Sull’argomento, il parere dell’attrice Cristiana Capotondi.

L’Italia, patria di Rossellini, De Sica, Visconti, Fellini, Germi, Leone,Tornatore, Benigni, ed altri artisti studiati in tutto il mondo, perché, secondo lei, esita a introdurre il cinema come materia obbligatoria in tutti gli indirizzi di studio delle superiori? Crede sia giunto il momento?

«In istituti diversi dai due licei, classico e scientifico, credo stiano introducendo materie più “moderne” ma non credo che sia essenziale venga introdotta una materia dedicata al cinema quanto piuttosto che il cinema venga usato dai docenti come strumento di studio per tematiche diverse e interdisciplinari».

A chi affiderebbe l’insegnamento della storia e critica del film?

«Ai cineasti. A chi fa cinema, per me gli unici deputati a parlarne con giudizio».

In un recente convegno a Firenze è emerso che i giovani universitari preferiscono le serie al film di lungometraggio? Molti di loro, quando decidono di vedere un film, si affidano a dispositivi privati, si recano al cinema, più raramente, una volta ogni venti giorni. È la morte annunciata del cinema in sala?

«Non credo morirà mai l’esperienza della visione collettiva ma, appunto, deve diventare un’esperienza. Cinema accoglienti, esercenti intelligenti che diventano imprenditori culturali possono aiutare le sale a sopravvivere, convivendo con contenuti come le serie tv fruibili su supporti diversi».

In cosa il cinema aiuterebbe, secondo lei, la crescita e la formazione dell’allievo nella fascia d’età 13-18?

«Nel far cogliere ai ragazzi la forza evocativa delle immagini e magari, appassionandoli, anche nel fargli venire voglia di lavorare nell’industria cinematografica ».

Lei ha avuto esperienza di cineforum e/o di studio del cinema a scuola? Se sì, che ricordo ne ha?

«Vidi Ladri di biciclette in terza media grazie al nostro professore di tecnica Roberto Fiorini. È un’esperienza che non dimenticherò mai, ne uscimmo tutti sconvolti, dalle immagini del nostro Paese, dal bianco e nero e chiaramente dalla dolorosa vicenda del protagonista».

Da adolescente seguiva più la televisione o il cinema?

«Entrambe, anche se passavo la maggior parte del mio tempo a giocare all’aria aperta».

C’è stato un film, un regista, un attore che sono stati utili per la sua crescita culturale e formativa durante l’adolescenza?

« C’era una volta in America di Sergio Leone. L’esperienza cinematografica più incredibile della mia vita. Mi ha formata emotivamente ancor prima che culturalmente. Il cinema per me è emozione quando sa cogliere il senso vitale dell’esistenza».

Carlo Verdone immagina che se si allestisse «una sala cinema a norma in ogni scuola» avremmo circa ottomila sale nelle quale vedremmo molto cinema nazionale ed estero che non arriva in distribuzione, e, soprattutto, abitueremmo i ragazzi al piacere dello spettacolo in condivisione…

«Perché no, potrebbe far bene al business dell’industria. Che peccato però essere stati studenti negli anni in cui le sale scolastiche non c’erano».

Non le pare che sia un deficit culturale che i nostri giovani non conoscano i film di Fellini, Visconti, De Santis, Germi, Zurlini, Petri, Comencini, Lattuada, ecc.?

«Sì, penso sia un peccato che si perda la memoria culturale del nostro Paese ma rientra della nostra bruttissima abitudine all’esterofilia. Dovremmo difendere anche il nostro sistema di insegnamento rispetto al nozionistico anglosassone. Ammodernarlo ma difenderlo».

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