giovedì 1 febbraio 2024
L'incidente, la vita appesa a un filo i lunghi anni accudito in casa dai familiari, nella sua condizione misteriosa di coscienza. Per il fratello, un'esperienza di vita che gli ha insegnato tutto
Alessandro e Andrea Guarnieri

Alessandro e Andrea Guarnieri - .

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«Accudire mio fratello Alessandro nei suoi 37 anni di stato semi vegetativo ha significato, in una parola, esserci. Aveva solo 17 anni quando fu investito in moto e i medici gli diedero 72 ore di vita. I nostri genitori non persero le speranze, fu operato e riuscì a sopravvivere. Da allora ci siamo presi cura di lui giorno e notte».

Inizia così il racconto ad Avvenire di Andrea Guarnieri, secondo di tre figli di una famiglia padovana che il 15 settembre del 1987 si ritrovò tutto a un tratto catapultata in una situazione impossibile anche solo da immaginare, in seguito all’incidente subito dall’ultimogenito, morto nei giorni scorsi. «L’edema cerebrale e l’intervento chirurgico. I mesi di rianimazione, il respiratore meccanico, il sondino. Il trasferimento a Innsbruck nella clinica del dottor Saltuari, il rientro in Italia con il ricovero all’istituto di Montecatone e ad Abano. Infine, la decisione di riportarlo a casa, riorganizzando completamente la nostra vita per garantirgli tutta l’assistenza di cui avrebbe avuto bisogno».

La madre tutte le notti gli ha cambiato posizione nel letto ogni due ore e la sua dedizione al figlio malato è stata tale che sapeva come affrontare anche il minimo sentore di un’emergenza. «È morta l’anno scorso. Sono sicuro che si sia guadagnata il Paradiso. Attraverso la fede ha trovato la forza per andare avanti nonostante tutto e per tutto questo tempo», sottolinea Andrea, mentre spiega il programma intensivo di riabilitazione cui era sottoposto il fratello, che prevedeva esercizi di mobilitazione di tutti gli arti. Per farlo ci volevano cinque persone, e si davano il cambio amici e conoscenti, con l’aiuto di infermieri, distribuiti in tre gruppi.

«La storia di mio fratello mi ha insegnato che se amiamo ogni persona che incontriamo nel nostro cammino senza aspettarci nulla in cambio, gratuitamente, attenti alle sue necessità, abbiamo fatto la scelta migliore. Perché amare così ci offre la possibilità di crescere. Ho cercato di portare la sua croce con lui, ma questo non ha comportato solo dolore e sofferenza. È stato il seme che ha dato tanti frutti buoni, in termini di relazioni familiari, legami di amicizia e testimonianze di affetto sincero. La ragazza che sarebbe diventata mia moglie lo ha colto sin dall’inizio, e quando i nostri figli sono cresciuti hanno riconosciuto i sentimenti che ci legavano ad Alessandro guardando come ci prendevamo cura di lui».

Andrea è certo che suo fratello comprendesse quello che succedeva intorno a lui e che cercasse anche di manifestare quello che provava. «Ogni volta che lo prendevo in giro lui sorrideva, così come si contraeva se provava dolore. Riconosceva la mia voce, anche quando la sentiva al telefono. Ha rischiato spesso di morire, ma se l’è sempre cavata. Noi lo consideravamo immortale. Sembra sia stato il paziente in coma più longevo d’Europa».

Mentre tiene banco il dibattito sul “diritto di morire”, la storia della famiglia Guarnieri va nella direzione opposta. «Il nostro non è stato accanimento. Abbiamo cercato di garantire a mio fratello tutte le cure possibili, per la maggior parte a spese nostre. È necessario però cercare sempre più di offrire a tutti la possibilità di accedere a un sistema sanitario capace di assistere, all’occorrenza, 24 ore su 24, così come di investire sulle cure palliative. Per non trovarsi a scegliere se vivere o morire perché non ci si può permettere una cura. Altrimenti la cultura dello scarto avrà il sopravvento».

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