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«Per il parto in anonimato si fa ancora molto poco. La donna arriva all’aborto disperata, nessuno spesso le spiega che può già lasciare il bambino in ospedale, in totale sicurezza». Concetta Cascioli, pediatra neonatologa in pensione, per 40 anni ha lavorato nel nido e nella terapia intensiva del Policlinico universitario Federico II di Napoli. Oggi ha 76 anni, ma ancora non si dà pace quando viene a sapere di bambini “buttati” nel cestino dell’immondizia. Il recente episodio di Piacenza la riporta alla sua esperienza accanto alle mamme e a quelle piccole creature. Ma sa bene che a volte alcune donne – e non solo straniere – non sanno come affrontare la gravidanza, magari perché sole e senza aiuti.
Eppure, e in attesa che si possa realizzare una rete di culle per la vita nei pressi degli ospedali, una alternativa già c’è. «Con il parto in anonimato – spiega Cascioli – innanzitutto non si incorre in aborti clandestini, che ci sono ancora oggi, purtroppo. E poi, per esempio, la mamma ha la possibilità di lasciare in ospedale un bambino nato con una malformazione. Spesso le donne non sanno che in questi casi il nome della persona che ha partorito non viene scritto e l’anonimato è sempre garantito per legge». Per paura oppure perché isolate e prive di qualsiasi supporto, di fronte a una gravidanza inaspettata e non voluta, così ricorrono a gesti estremi. «Sono testimone di alcuni casi in cui i ginecologici si sono messi molto a disposizione e hanno aiutato le donne in difficoltà – spiega Cascioli –. Oggi si fa tutto di fretta, per queste situazioni invece serve molto tempo. E ascolto». Soprattutto per intercettarle e prevenirle. «Vedo che si fa molto poco per occuparsene, anche perché ci vuole un impegno notevole da parte dello specialista che riceve la donna. Se la mamma accetta il parto in anonimato si fa subito richiesta al Tribunale dei Minori, e la pratica viene evasa abbastanza velocemente quando si tratta di un bambino nato sano».
Molte famiglie, del resto, sono già pronte ad accogliere questi bimbi. «Negli anni 80 – continua la dottoressa – mi è capitato di conoscere mamme con l’Aids che non hanno voluto riconoscere i figli. Hanno fatto il parto in anonimato, poi questi bambini sono stati adottati. E l’iter burocratico è stato molto veloce. Porto nel cuore il caso di un bambino con una malformazione cerebrale, adottato poi da una famiglia che appartiene alla Comunità Papa Giovanni XXIII». Ogni volta, pur nella disperazione, la mamma se aiutata e ascoltata è riuscita a salvare il bambino.
«Quando ero giovane ho fatto volontariato all’Annunziata di Napoli, al brefotrofio. Ricordo che allora i bambini venivano lasciati nella “ruota” – racconta Cascioli –. La donna lasciava però anche un segno, una catenina per esempio, per potere poi riconoscere il bambino e ritrovarlo nel caso in cui avesse voluto poi andare a riprenderlo. Oggi, quando vengo a sapere dell’ennesimo caso di abbandono in un sacchetto, mi chiedo: ma la mamma dove va a finire? Dopo il parto chi si prende cura di lei? Queste donne purtroppo non accedono all’informazione corretta, dovrebbero riuscire ad andare all’Asl a parlare con un medico che le informi su come fare se si trovano in difficoltà, devono sapere che c’è una strada possibile per salvare il bambino e che possono sempre ricevere tutta l’assistenza e le cure di cui hanno bisogno».