Malata di sclerosi multipla suicida in Svizzera. La morte è una soluzione?
Martina Oppelli, 50enne triestina inferma da più di venti, ha deciso di morire dopo che l'Azienda sanitaria e il tribunale non avevano riconosciuto il suo caso tra quelli circoscritti dalla Corte

Due anni esatti dopo la richiesta all’Azienda sanitaria universitaria giuliano-isontina (Asugi) di accedere al suicidio medicalmente assistito, respinta per tre volte, Martina Oppelli è morta somministrandosi il farmaco letale. A differenza della sua richiesta di poterlo fare in Italia, però, la 51enne triestina affetta da Sclerosi multipla da oltre vent’anni ha cessato di vivere in un centro specializzato in Svizzera lasciando un video-messaggio, affidato all’Associazione Luca Coscioni che l’ha assistita lungo tutto il suo braccio di ferro con l’Asugi (anche se materialmente ad accompagnarla oltrefrontiera sono stati Claudio Stellari e Matteo D’Angelo, attivisti di Soccorso Civile, associazione di cui è legale rappresentante Marco Cappato).
Valutando più volte il suo caso – l’ultima il 1° luglio – l’Asugi aveva verificato che non sussiste una delle condizioni fissate e ripetutamente ribadite dalla Corte costituzionale per ottenere l’aiuto alla morte volontaria: la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, intesi non come sostegni alla vita quotidiana di una malata grave ma come presidi medici che sostituiscono funzioni vitali. Un punto fermo, per i giudici costituzionali, a garanzia di tutte le persone che si trovano in condizioni analoghe e che vanno protette da derive e scelte letali contro la loro vita, così come detta lo spirito complessivo del nostro ordinamento.
A pronunciarsi contro la richiesta della donna triestina e a impedire che si suicidasse era stato anche il Tribunale di Trieste, che a fine marzo ha rigettato la sua richiesta per lo stesso motivo espresso dall’Azienda sanitaria. Due verdetti di autorità differenti – sanitaria e giudiziaria – che sono giunte alla stessa conclusione. Martina Oppelli però non ce la faceva più e ha deciso di suicidarsi ugualmente. Una scelta tragica, come ogni suicidio, davanti alla quale c’è spazio solo per il dolore e il rispetto. Lo stesso rispetto per tutti i pazienti nelle sue condizioni – e anche più gravi – che impone di riflettere sul fatto che la soluzione di morte volontaria per una malattia che si è fatta insostenibile è sempre drammatica, una sconfitta per tutti. E richiede che si evitino le consuete polemiche riflettendo piuttosto su cosa occorre fare perché situazioni come quella di Martina Oppelli si possano prevenire e la morte non diventi la via d’uscita ordinaria a casi simili. Che fare, dunque?
Anzitutto ascoltare la voce della donna triestina: «Fate una legge che abbia un senso, una legge che tenga conto di ogni dolore possibile – dice rivolgendosi ai parlamentari nel suo messaggio di congedo diffuso dall’Associazione Coscioni –, che ci siano dei limiti, certo, delle verifiche, ma non potete fare attendere due, tre anni prima di prendere una decisione. In questi ultimi due anni il mio corpo si è disgregato, io non ho più forza, ma non ho più forza nemmeno di respirare delle volte, perfino i comandi vocali non mi capiscono più. Perché sono dovuta venire qui all'estero? Perché non ce la facevo più ad aspettare, non ce la facevo più. Per piacere fate una legge che abbia un senso e che non discrimini nessuna situazione plausibile. Scusate il disturbo».
Ci sono anche storie identiche ma opposte nei loro approdi. E sono certamente la grande maggioranza (silenziosa). Come quella di Maria. Malata anche lei di sclerosi multipla in uno stato molto avanzato, Maria – nome di fantasia – ha recentemente portato la sua testimonianza nel corso dell’udienza alla Corte costituzionale per un caso di richiesta di eutanasia, poi dichiarato inammissibile: «La gente – aveva detto Maria – non vuole morire, mi pare assurdo che qualcuno dica il contrario. La mia vita deve rimanere inviolabile da terze persone, anche se io richiedessi in un momento di disperazione di essere uccisa. Secondo questa logica pericolosa, tutti i malati dovrebbero morire».

Eppure, della sua voce di malata grave che chiede cure e non morte pochi si sono accorti. Perché? «Come si dice, fa più rumore un albero che cade rispetto a una foresta che cresce. Fa più notizia, e non solo – è la risposta di Maria –. Secondo me, le richieste di farla finita arrivano da persone lasciate sole, che non ricevono aiuto sufficiente. Io ho avuto la fortuna di aver incontrato le persone giuste, tra amici, sacerdoti, medici, e ovviamente mio marito. Ricordo ancora che la prima dottoressa che si era occupata di me mi aveva regalato due biglietti per un concerto, proprio per spronarmi a vivere pienamente la mia vita. È una cosa bella ma, in fondo, dovrebbe essere normale. Se incontriamo una persona sul cornicione del quinto piano la invitiamo a buttarsi o ci offriamo di aiutarla a risolvere i suoi problemi? Si evocano termini come misericordia, libertà, dignità, ma si tenta di far passare l’idea che esista una libertà di uccidersi. La dignità, quella vera, è nel poter continuare a vivere. Siamo nati per questo».
Sul caso di Martina Oppelli si era pronunciato Paolo Pesce, medico, bioeticista, collaboratore della Diocesi di Trieste e del vescovo Enrico Trevisi, che aveva spiegato come «la commissione dell’Asugi» chiamata a valutare il caso della malata triestina ha fatto «una scelta coraggiosa perché in passato, per un caso analogo, aveva riconosciuto che la sola necessità di assistenza continua per l’alimentazione, l’igiene personale, erano condizioni sufficienti per essere considerate trattamenti di sostegno vitale. La signora Oppelli, che ha già fatto apparizioni pubbliche, appare pienamente cosciente, è assistita per tutte le necessità della vita quotidiana, assume farmaci per il controllo dei sintomi legati alla malattia, ma non è, per quanto noto, legata né ad alimentazione né a idratazione, né a respirazione artificiale. Sta proprio qui il centro della questione, portato avanti dall’Associazione Coscioni. La Corte costituzionale nel 2019 aveva affermato che non è punibile chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma capace di prendere decisioni libere e consapevoli. La Corte non ha riconosciuto il diritto al suicidio assistito ma ha depenalizzato il reato di aiuto al suicidio nel caso ricorrano le suddette condizioni».
Decisivo capire cosa sia un trattamento di sostegno vitale: secondo il medico triestino, «si tratta non di un semplice sostegno, ma di una vera e propria sostituzione di una funzione vitale che l’organismo è ormai del tutto incapace di assicurare autonomamente». La valutazione fatta propria anche da Asugi e Tribunale. Chiariti i termini della questione, e in attesa di capire se e come verranno recepiti in una legge nazionale, resta la sofferenza di migliaia di cittadini italiani. Che non vogliono dover chiedere di morire perché non ce la fanno più.
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