La legge? Sbagliato avere fretta. Lo Stato non abbandoni i più fragili
La vita resta un diritto inviolabile, istituzioni e medicina lo proteggano sempre. Solo il 25% di chi ne ha bisogno può accedere alle cure palliative. Serve riflettere sul fine del Servizio sanitario

La vita appartiene a ogni essere umano, diritto inviolabile che deve essere protetto, perché la sua violazione o estinzione impoverisce un patrimonio spirituale, culturale, sociale, produttivo universale: giova tutelarla e proteggerla. È un compito fondamentale della medicina da millenni: senza andare troppo oltre, basti pensare a quale era il ruolo affidato al medico così come descritto dal Giuramento di Ippocrate (IV secolo a.C.).
Anche nel terzo millennio chiediamo alla medicina aiuto per garantire un buono stato di salute, oltre che per guarire le malattie, soprattutto quelle che suscitano maggiori sofferenze e difficoltà nell’applicazione di terapie risolutive. I successi della medicina hanno portato grandi giovamenti a favore dello stato di salute generale, aumentato l’aspettativa di vita e, con la cronicizzazione di molte patologie, prolungato anni di vita, sia pure sottoposti a continue cure, anche costose. Con gli aspetti oggettivamente di successo dal punto di vista della pratica di cura, si sono affacciati nuovi modi di concepire il rapporto con la scienza, con l’autodeterminazione del cittadino molto valorizzata e in grado di creare relazioni medico-paziente meno asimmetriche e più complesse. Il dibattito che dura da anni sulla scelta individuale di rinunciare alle cure, quando ritenute troppo lunghe, invasive e senza speranza di successo, si inserisce in questo contesto.
Il confronto delle convinzioni in merito a questo tema suscita contrapposizioni ideologiche che contrastano con la finalità definita in secoli di civiltà, che è il riconoscimento della comune dignità umana, da rispettare e servire, fondamento di tutte le Costituzioni recenti. La tutela della salute riguarda molto da vicino i comportamenti da assumere per rendere credibile l’esercizio di quel dovere. È esattamente “morire con dignità” l’espressione più ripetuta per giustificare scelte di eutanasia o, con più lieve richiesta, di suicidio medicalmente assistito.
Il disegno di legge che si sta discutendo in Parlamento, che riguarda il fine vita, è rubricato come “ Disposizioni esecutive della sentenza della Corte Costituzionale del 22 novembre 2019, n.242”. Non appare nessun termine personalistico che richiami l’attenzione su una disposizione che è di grande impatto umano, e questo perché si limita a dettare norme penali.
La proposta di legge in discussione non affida la morte medicalmente assistita al Servizio sanitario nazionale, cioè al nostro prezioso, complesso – anche costoso – sistema che deve garantire la tutela della salute come «diritto fondamentale» (articolo 32 della Costituzione) offrendo ogni possibile assistenza ai bisogni sanitari dei cittadini. Al contrario, la bozza di legge presentata nei giorni scorsi afferma che «il personale in servizio, le strumentazioni e i farmaci di cui dispone a qualsiasi titolo il Sistema sanitario nazionale non possono essere impiegati al fine della agevolazione del proposito di fine vita». Se un malato terminale sarà ricoverato in un ospedale pubblico e potrà accedere al suicidio assistito in quanto autorizzato dal Comitato di valutazione di cui all’articolo 2 della legge in cantiere dovrà provvedere da solo, pagandosi farmaci, medico (anche pubblico, ma extra orario) oppure rivolgersi a strutture private. Se fosse così, avremmo “tante piccole Svizzere” invece di garantire tutte le possibili assistenze, e soprattutto la palliazione e la terapia del dolore, con tutte le prestazioni previste da leggi nazionali vigenti da tempo (come la 38 del 2010) ma in gran parte del Paese, completamente disattese.
L’umanizzazione tanto retoricamente richiamata è lontana da una coerente programmazione delle medicina palliativa. Il disegno legislativo prevede che entro il 2028 il 90% della popolazione interessata potrà disporre delle cure palliative, ma sconcerta una ulteriore affermazione: al comma b del medesimo articolo 3 si legge che «eventuali residui delle somme non utilizzati per le finalità di cui alla presente legge sono in ogni caso restituiti allo Stato e non possono essere utilizzati per finalità diverse da quelle previste nella presente legge». Mi chiedo: perché dovrebbero rimanere «residui» invece di attuare tutte le strutture e assumere personale da preparare? A oggi infatti gli specialisti sono insufficienti . Solo il 25% dei bambini può accedere alle cure palliative.
La Corte Costituzionale ha invitato il Parlamento a legiferare tenendo conto di alcuni criteri insuperabili. Il progetto di legge istituisce un Comitato di valutazione che deve verificarne i presupposti entro 90 giorni, eventualmente prorogabili di altri 30 per emettere il proprio parere, in tal modo burocratizzando un’attesa carica di sofferenze che spinge nuovamente a “fare da sé”, in pratica sottraendo l’accompagnamento alla morte con dignità a una compassione comunitaria, possibile attraverso un efficiente Servizio sanitario. È compito del Ssn farsi carico doverosamente di tutelare ogni vita nelle strutture pubbliche. Anche nell’iter della legge 194 in Parlamento, col confronto, si trovarono soluzioni per rispettare le diverse concezioni culturali.
I parlamentari ora non abbiano fretta di trovare il minimo denominatore al solo scopo di dimostrare di aver ottemperato a una domanda di soccorso da parte di pazienti ormai “stroncati” dalla malattia e dai dolorosi dubbi dei familiari. Pretendano – tutti! – una riflessione comune sulle finalità del Ssn e sul dovere dello Stato di non abbandonare i vulnerabili più problematici: si tratta di onorare non solo il loro ruolo ma una concezione almeno umanitaria, se non sociale. Non è una crociata ma una questione antropologica ed etica radicata in princìpi universali.
La difesa della dignità di ogni persona è lo specchio di quanto si difende la propria, di ciascuno. Purtroppo il comma a dell’articolo 4 indebolisce sul nascere la legge perché dichiara che il Comitato di valutazione può avvalersi delle strutture del Ministero della Salute, ma «nel limite delle risorse e dei mezzi disponibili a legislazione vigente e senza ulteriori oneri per la finanza pubblica». Difesa di quale dignità?
*Già ministro della Sanità
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