Il rebus politico finanziario della banca centrale Usa

September 13, 2025
I prezzi corrono (+2,9% in un anno, record da gennaio), il mercato del lavoro soffre, vista la crescita superiore alle attese delle richieste dei sussidi di disoccupazione. Gli ultimi dati emersi in settimana confermano che lo stato di salute dell’economia americana non è ottimale. Anche perché incombono le incertezze legate ai dazi (i cui effetti ancora non si vedono) e il debito extra che le politiche di Donald Trump stanno accumulando. Di qui il crescente nervosismo della Casa Bianca sui temi economici, e la necessità di avere una banca centrale dalla propria parte: senza un aiuto dalla politica monetaria, con un abbassamento dei tassi di interesse che può rendere più leggero l’onere del debito pubblico e dare ossigeno ai privati, diventa difficile tenere salda la rotta di politiche espansive e di una narrativa all’insegna del «tutto benissimo». Da mesi il presidente dice di voler cacciare il numero uno della
banca centrale americana, la Federal reserve, Jerome Powell.
Probabilmente non lo farà, visto il rischio di nuove controversie legali ma soprattutto il messaggio negativo che arriverebbe sui mercati finanziari, dove l’indipendenza delle banche centrali è una delle poche regole del gioco considerate non negoziabili. Anche perché a maggio 2026 Powell arriverà a scadenza naturale, e a quel punto il presidente tycoon avrà sostanzialmente mano libera. Di qui ad allora, intanto, continuerà la scalata alla banca centrale, e a quel consiglio da cui ha licenziato Lisa Cook (decisione temporaneamente congelata da un giudice federale) e dove dovrebbe entrare a breve Stephen Miran, così vicino a Trump da essere pronto a diventare il primo consigliere della Fed a mantenere al contempo il ruolo di consigliere della Casa bianca. In attesa degli sviluppi dei prossimi mesi, mercoledì la Federal reserve è attesa a una decisione sui tassi che rappresenterà comunque una svolta. Proprio per i due dati emersi in settimana, che rendono la scelta tutt’altro che semplice. Sì, perché la Fed non deve solo tenere a bada l’inflazione – come nel caso della Bce – ma è chiamata anche a combattere la disoccupazione: due patologie che si stanno manifestando contemporaneamente ma richiedono cure opposte, ovvero il rialzo dei tassi (per placare i prezzi) e l’abbassamento (per spingere il lavoro). Un rebus a cui si aggiungono le pressioni politiche per una serie di sforbiciate, e che non a caso spingono gli analisti a prevedere 5-6 tagli tra fine 2025 e inizio 2026. Difficile che mercoledì la Fed possa esimersi da un taglio, ma l’ammontare che verrà deciso (una “classica terapia” da -0,25% o un dosaggio doppio a -0,5%), insieme ai commenti e alle reazioni dirà molto di più sulla natura di questa scelta e sull’aria che tira tra la banca centrale e la Casa bianca. Tutt’altro clima al di qua dell’Atlantico, dove per la Bce il copione è già scritto: inflazione stabile al 2%, crescita addirittura ritoccata al rialzo complice la ripresa dell’industria. Giovedì scorso per Christine Lagarde è stato un gioco da ragazzi spiegare che i tassi in Europa per ora non si toccano, e per il futuro si vedrà di mese in mese. © riproduzione riservata

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