Autografi a pagamento: il calcio sempre più lontano dai tifosi
Il giovane fenomeno del FC Barcelona, Lamine Yamal, ha deciso di non firmare più dediche gratuite. Un accordo commerciale trasforma (anche) la firma in un brand

Il giovane fenomeno del FC Barcelona, Lamine Yamal, ha deciso di non firmare più autografi “gratuiti” ai tifosi che lo attendono al termine degli allenamenti o fuori dallo stadio. Alla base della decisione, così riferiscono i media, vi sarebbe un accordo commerciale: la sua firma diventerà un bene da valorizzare nei gadget di merchandising, riducendo o eliminando le dediche spontanee. Il fatto, che di per sé appare come una scelta individuale, ha però un significato simbolico molto più vasto: rappresenta l’ennesimo tassello di un distacco crescente tra il calcio e i suoi tifosi. È una frattura che merita di essere osservata, anche con un pizzico di nostalgia per tempi che paiono quasi appartenere a un altro mondo.
Ricordo, per esempio, quando la Juventus FC, negli anni ’80, si allenava al mitico impianto del Combi: gli spogliatoi, però, erano allo stadio Comunale, e all’inizio e al termine della seduta i giocatori attraversavano a piedi via Filadelfia che separava gli impianti. I tifosi potevano toccare Platini, così come Paolo Rossi, Cabrini, Scirea, Tardelli. Era il momento in cui si formavano file spontanee di tifosi: bambini con maglie e palloni, genitori con penne pronte, volti carichi di entusiasmo e anche qualche ingorgo del traffico. Lì si consumava un gesto semplice ma prezioso: la consegna della firma, la promessa firmata sulla maglietta, su un bigliettino e si celebrava un istante destinato a diventare un ricordo che restava, letteralmente, per sempre. Oggi assistiamo a un calcio che viaggia su aerei privati, che si accinge a disputare partite di serie
A a Perth, in Australia, con tifosi che si devono svenare per acquistare quattro diversi abbonamenti per seguire le partite in streaming, squadre che devono rispondere a obiettivi globali e mercati internazionali. Il contatto fisico, l’attesa davanti al cancello, il gioco del «mi fai l’autografo?» diventano quasi un anacronismo. E la scelta di Yamal, legittima come tutte le scelte professionali, cristallizza questo mutamento: anche una firma diventa un brand che si acquista. È come se il tifoso, un tempo parte integrante del rito quotidiano del calcio, diventasse semplicemente un cliente. La contraddizione urla vendetta: il calcio afferma di essere “di tutti”, ma la realtà racconta tutt’altro: il rapporto tra club/giocatori e supporter si regge solo su logiche di consumo. Così, mentre Yamal firma contratti di sponsorizzazione e silenziosamente interrompe il rito degli autografi gratuiti, possiamo chiederci se non sia il caso di ridiscutere il rapporto tra sportivi e tifosi, tra campioni e comunità. Se non sia importante che l’uomo-giocatore non sia solo marchio, e che il tifoso non sia solo cliente. Un tempo la Juventus attraversava via Filadelfia a piedi, oggi il calcio corre verso Perth, Qatar, Arabia Saudita. E il desiderio di vicinanza pare destinato a diventare, semplicemente, l’ennesima nostalgia.
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