«MacIntyre, grande filosofo cristiano» Ci aiuta a capire anche gli Usa di oggi
Caro Avvenire, apprendo della morte del filosofo Alasdair MacIntyre, avvenuta lo scorso 21 maggio. Doveroso e meritato il rilievo da accordare al ricordo di uno dei maggiori pensatori cristiani del nostro tempo. Don Mario Filippa Milano Caro don Filippa, Avvenire è stato forse il quotidiano italiano che ha riservato più spazio alla scomparsa di Alasdair MacIntyre, di cui ha scritto con risalto sul sito Web e sulle pagine di Agorà Simone Paliaga il 23 maggio. Giusto, come lei ribadisce, approfondire ulteriormente il ruolo del pensatore britannico “emigrato” (come lui stesso scriveva) negli Stati Uniti. Nella comunità accademica americana, per la sua critica al liberalismo e la sua successiva adesione al cattolicesimo, diventò un protagonista centrale ma discusso e, a volte, criticato, malgrado il suo libro più noto, Dopo la virtù, sia stato un best seller. Non fu comunque un emarginato, essendo stato presidente della American Philosophical Association e avendo insegnato per molti anni in compagnia di eminenti colleghi alla University of Notre Dame (nell’Indiana e non nell’Illinois, come riporta in quarta di copertina l’edizione Feltrinelli della sua opera maggiore che ho in biblioteca, piccolo lapsus forse indicativo di una scarsa considerazione verso di lui della cultura laica italiana). In ogni caso, l’importanza di MacIntyre è cresciuta nel tempo, con l’attualità della sua tesi principale, ovvero che in Occidente la cultura morale è profondamente disorientata perché ha perso il contesto condiviso in cui alcuni concetti avevano un senso coerente. Abbiamo ereditato l’idea di “giusto”, “dovere” o “bene”, ma abbiamo reciso i legami che davano significato a questi termini. Il risultato è un’etica “frammentata”, fatta di slogan e conflitti insolubili, laddove i giudizi sembrano arbitrari o soggettivi. Secondo MacIntyre, per recuperare una vita morale sensata dobbiamo tornare a una concezione della virtù radicata nella comunità. Le virtù si formano all’interno delle pratiche, “forme coerenti e complesse di attività cooperativa umana socialmente stabilite”. Attraverso di esse, siano il giocare a scacchi, educare o praticare la medicina, le persone imparano a riconoscere e perseguire il bene non come successo esterno (denaro, fama), ma come eccellenza interna all’attività stessa. Le istituzioni, al contrario, sono le strutture sociali che rendono possibili le pratiche (le scuole per l’istruzione, gli ospedali per la medicina). MacIntyre le considera necessarie, ma moralmente ambivalenti, perché tendono a privilegiare i beni esterni (status, profitto, successo). Una società giusta e moralmente sana richiede, pertanto, pratiche vitali, che permettano la formazione del carattere e la trasmissione delle virtù e istituzioni giuste, capaci di sostenerle senza snaturarle. In questo quadro “neo-aristotelico”, MacIntyre ha poi recuperato esplicitamente anche il pensiero di Tommaso d’Aquino, con una rielaborazione della concezione della legge naturale, della razionalità pratica e del fine ultimo dell’essere umano. In opere più recenti, il filosofo britannico ha sviluppato una visione dell’essere umano come creatura razionale ma bisognosa degli altri a motivo della sua natura vulnerabile, che va educata e può acquisire la virtù solo all’interno di una tradizione e di un contesto comunitario stabile. Il rilievo politico di questa concezione postliberale è emerso recentemente, quando anche altri filosofi e intellettuali pubblici americani hanno ripreso le tesi di MacIntyre in un contesto culturale in mutamento. Sebbene non si sia mai identificato con il conservatorismo politico che, anzi, a volte criticò, alcune sue idee sono state adottate da correnti che rifiutano la visione dominante del liberalismo progressista e rivendicano un ordine sociale più coeso, organico, fondato su comunità locali, tradizioni religiose e valori trascendenti. Figure oggi assai influenti come Patrick Deneen (critico del liberalismo in quanto distruttore di tutte le culture non individualiste) e Adrian Vermeule (promotore di un’interpretazione della Costituzione orientata non solo alla protezione dei diritti dei singoli ma attivamente alla promozione del bene comune) si rifanno in parte a MacIntyre. La sua opera serve loro per giustificare il recupero di forme politiche fondate su un ordine morale condiviso, in contrasto con la neutralità liberale che privilegia l’autonomia del soggetto agente. Significativo che pochi giorni fa un giovane studioso collaboratore del Dipartimento di Stato Usa, Samuel D. Samson, abbia pubblicato sul sito ufficiale un articolo intitolato “Il bisogno di un’alleanza di civiltà in Europa” in cui scrive: “La nostra partnership transatlantica si fonda su una ricca tradizione occidentale di legge naturale, etica delle virtù e sovranità nazionale. L’affermazione rivoluzionaria della Dichiarazione d’Indipendenza secondo cui gli uomini sono ‘dotati dal loro Creatore di diritti inalienabili’ riecheggia il pensiero di Aristotele, Tommaso d’Aquino e di altri grandi pensatori europei, i quali riconoscevano che tutti gli uomini possiedono diritti naturali che nessun governo può arbitrariamente concedere o negare”. L’eredità di MacIntyre è viva e attuale. Ma il suo pensiero, pur ispirando movimenti critici del liberalismo, non può essere ridotto a una visione ideologica “anti-liberale”. La sua proposta rimane una sfida etico-comunitaria, cristianamente ispirata, che precede e trascende gli schieramenti politici, soprattutto quelli estremisti. © riproduzione riservata
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