Dopo gli eccessi della globalizzazione è ora di correggere qualcosa

È venuto il momento di più mano pubblica per sistemare le storture di troppo laissez-faire, che lascia indietro poveri ed esclusi, come ha ricordato Papa Leone XIV
November 11, 2025
Caro Avvenire,
promotori e avversari della globalizzazione la vedono o come un’opportunità di sviluppo per i Paesi poveri o come una nuova forma di colonialismo. Sostanzialmente, la globalizzazione consiste nello spostare la produzione dove costa di meno, allo scopo di massimizzare il profitto: ovverosia, applicare i principi del liberismo, aggirando i limiti imposti dallo Stato. La funzione dello Stato è quella di redistribuire la ricchezza prodotta, tramite la regolamentazione del mercato. Perché il mercato, lasciato a sé stesso, tende a destrutturarsi: si passa da una domanda e offerta costituita da molti attori a una situazione di monopolio. Da qui deriva la situazione in cui ci troviamo, con concentrazione della ricchezza e aumento delle disparità sociali.
Enrico Folli
Solarolo (Ra)
Caro Folli,
quando il giornalista americano Thomas Friedman, in un fortunato libro del 2005 sosteneva che Il mondo è piatto, la globalizzazione sembrava non solo inarrestabile, ma qualcosa di ormai irreversibile: i cavi a fibra ottica avrebbero collegato economie e culture in una superficie uniforme in cui competizione, cooperazione e innovazione si sarebbero manifestate senza attriti. Allo stesso modo, l’idea che il prezzo di un hamburger McDonald’s potesse misurare le differenze di potere d’acquisto tra Paesi – il ben noto Big Mac Index – sintetizzava un pianeta in convergenza, capace di ridurre le complessità economiche a un indicatore efficace e insieme pop. Oggi, sorprendentemente visto il breve lasso temporale, quelle due immagini sembrano provenire da un’altra epoca. La geografia è tornata a pesare, i confini sono riemersi, i dazi hanno ripreso a mordere, e la globalizzazione delle catene produttive appare più una parentesi storica che una trasformazione strutturale. Eppure, decretare la “fine” del “mondo piatto” rischia di essere semplicistico, come lo era la celebrazione del suo picco. Attualmente, il dibattito si muove tra due narrazioni opposte. Da una parte, c’è chi vede una frattura sistemica. Guerre commerciali, tensioni Usa-Cina, riarmo industriale, ritorno dello Stato nell’economia, reshoring e friend-shoring (riportare in patria le industrie o collocarle in nazioni amiche) sembrano indizi di una globalizzazione in regressione. Dall’altra parte, è un fatto che mai come nel 2025 beni, capitali e – soprattutto – dati circolano senza ostacoli. Siamo forse di fronte a una ri-globalizzazione asimmetrica. Alcuni settori arretrano, altri accelerano: le catene del valore si accorciano nei settori strategici, ma si allungano in quelli meno sensibili; i capitali industriali si territorializzano, mentre quelli finanziari e digitali si smaterializzano. Tuttavia, la globalizzazione digitale è diversa, in quanto meno governata da istituzioni internazionali e più dominata da grandi piattaforme. E anche più intrecciata a dinamiche politiche e identitarie.
Qui si aggancia, caro Folli, la sua denuncia delle crescenti disuguaglianze. Davvero Elon Musk riceverà dal suo gruppo un superbonus di mille miliardi di dollari? Forse molto meno. Ma non cambia la sostanza. Negli ultimi decenni, nei Paesi Ocse la disparità di reddito si è ampliata. Il 10% più ricco della popolazione guadagna in media 9,5 volte quanto guadagna il 10% più povero, rispetto a un rapporto di circa 7 a 1 negli anni ’80 del secolo scorso. Quindi, è almeno in parte vero che anche dove la globalizzazione ha avuto successo, l’effetto redistributivo interno non è stato adeguato. Ciò vale anche per la ricchezza: sempre nei Paesi Ocse, il 10% delle famiglie benestanti detiene oltre il 50% della ricchezza complessiva. Su scala internazionale, la globalizzazione ha contribuito a una certa convergenza dei redditi tra nazioni (in particolare, grazie alla crescita delle economie cinese e indiana), però queste tendenze stanno mostrando segni di inversione. Il quadro è complesso: non pesano solo la caduta delle frontiere e la liberalizzazione normativa, che rappresentano solo alcune tessere del mosaico. Lo Stato può (e deve) avere un ruolo, perché welfare, istruzione, tassazione, protezione dei lavoratori, infrastrutture di accesso alle nuove tecnologie risultano cruciali per determinare se la globalizzazione si traduce in crescita condivisa oppure in accumulazione di denaro e potere concentrati in poche mani. In ogni caso, il mercato ben temperato rimane uno strumento prezioso, quando pensiamo alla potenziale invadenza dello Stato con la sua forza dirigistica: la libertà di stampa rimane un’enunciazione teorica se un ministero controlla le forniture di carta o può oscurare i siti Web (cosa che è accaduta e accade tuttora in tanti Paesi). L’equilibrio ideale nelle cose umane, caro Folli, resta sempre difficile da raggiungere e precario da mantenere. Non dobbiamo stancarci di spingere il pendolo nella direzione che compensa gli eccessi del momento. È venuta l’ora di più mano pubblica per correggere le storture di troppo laissez-faire, che lascia indietro poveri ed esclusi (come ci ha ricordato Papa Leone XIV con la sua esortazione apostolica Dilexi te). Senza che lo spostamento diventi un ring fra Stati a colpi di tariffe e conduca a perdite di efficienza con danno per tutti i cittadini.

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