Cittadinanza agli “italiani” all’estero Una riforma che va almeno integrata

April 28, 2025
Caro Avvenire, Non ho mai vissuto in Italia, ma sono italiano. Ho ricevuto la cittadinanza da mia nonna che, a metà del secolo scorso, emigrò in Bolivia, lasciando alle spalle una Calabria distrutta dalla guerra. Qui sposò un figlio di napoletani. A dodici anni ho visitato l’Italia per la prima volta. Da allora sono tornato una dozzina di volte. A sedici anni ho frequentato il mio primo corso di lingua italiana alla Dante Alighieri di La Paz. Leggo letteratura italiana. Mi viene la pelle d’oca a guardare la Nazionale. E prego ogni giorno per il mio Paese (per entrambi). Questo per dire che non tutti i connazionali nati in America Latina sono persone che usano il passaporto per fare shopping a Miami senza visto. Ma ora che non abbiamo il diritto di lasciare in eredità ai nostri figli il bene della cittadinanza, uno dei più grandi beni che i miei genitori hanno potuto trasmettermi, sono ancora un cittadino come voi? Juan Ignacio Riveros Santiago del Cile Caro Riveros, sento già quelli che dicono: “Juan Ignacio Riveros non sembra proprio un nome italiano”. E poi la domanda: perché si lamenta, che cosa è cambiato? Mi consenta, caro Riveros, questo approccio diretto alla sua bella e sentita lettera per evidenziare come una importante riforma sia stata varata nel silenzio o nell’indifferenza generale. Ed è stato un errore. Perché se ne sarebbe dovuto parlare di più. Il 28 marzo, lo ricordo per i tanti distratti, con il decreto-legge 36, sono state introdotte importanti modifiche alla normativa sulla cittadinanza per discendenza (il cosiddetto ius sanguinis). L’obiettivo dichiarato è rafforzare il legame effettivo tra i richiedenti e il nostro Paese, contrastando presunti abusi e pratiche opportunistiche. Negli ultimi anni – questo rappresenta un dato di fatto – si è registrato un netto aumento delle richieste di cittadinanza, soprattutto da parte di discendenti di emigrati italiani in Sud America. In Argentina, ad esempio, i riconoscimenti sono passati da circa 20.000 nel 2023 a 30.000 nel 2024. Questa crescita ha messo sotto pressione gli uffici consolari e ha creato timori circa l’uso strumentale dei passaporti per ottenere vantaggi nell’Unione Europea. Si è arrivati così alla decisione di concedere la cittadinanza italiana per discendenza in modo automatico soltanto fino alla seconda generazione, ovvero figli e nipoti di cittadini italiani nati in Italia, interrompendo così una lunga tradizione giuridica che non poneva limiti rigorosi. I discendenti di terza generazione o successive dovranno soddisfare requisiti aggiuntivi, come la residenza legale in Italia per almeno due anni prima della richiesta. Inoltre, i cittadini nati e residenti all’estero dovranno dimostrare di aver esercitato i diritti e i doveri civili, almeno una volta ogni 25 anni, ad esempio votando, rinnovando documenti o mantenendo aggiornato lo stato civile presso le autorità consolari. Inutile dire che la riforma ha suscitato reazioni contrastanti. Numerosi discendenti di italiani in Sud America, come lei, caro Riveros, hanno manifestato forte delusione, ritenendo che siano stati sottratti diritti acquisiti e venga indebolito il vincolo con la madre patria. Qualche giurista ha parlato di una “grande perdita” della cittadinanza italiana e di profili di incostituzionalità e di incompatibilità con il diritto Ue (tra l’altro, si è usato il decreto per creare un effetto tagliola, in modo da impedire la presentazione di domande durante l’iter di una legge ordinaria). D’altra parte, il governo sostiene che la stretta serva a garantire che la cittadinanza italiana sia attribuita a chi mantiene un rapporto reale e continuativo con il Paese. Capisco, dunque, l’amarezza di chi si vede ingiustamente penalizzato. In questo caso, come spesso accade, il comportamento scorretto di pochi finisce con il danneggiare molti. In ogni caso, penso da tempo che avremmo dovuto favorire il ritorno di persone di origine italiana – e forse è un’opzione ancora praticabile – per colmare i vuoti che la crisi demografica apre nella Penisola. Si tratta di persone che conoscono o possono imparare facilmente la lingua e sono già sintonizzate sulla mentalità e lo stile di vita, rendendo l’integrazione semplice e rapida, sia nel mondo del lavoro sia nella quotidianità. Questo non significa stigmatizzare gli immigrati di altra provenienza, ricchezza sempre da apprezzare e valorizzare. Semplicemente, è riconoscere che una politica lungimirante avrebbe dovuto già favorire questi canali di arrivo. Ovvio, non si può pretendere che tutti coloro che sono oggi radicati in Cile, Argentina o Brasile recidano i loro legami per attraversare definitivamente l’Oceano. Né si possono depauperare in modo “predatorio” le società di origine, più fragili di quella italiana. Tuttavia, nel naturale e libero movimento delle persone, avere un’attenzione speciale agli “italiani” delle Americhe (compresi gli Stati Uniti, oggi meno ospitali sotto la nuova amministrazione Trump) potrebbe essere un’ottima idea. E si può farlo – proprio nella conversione parlamentare del decreto, auspicabilmente attenta a tutti i profili in gioco – accompagnando le regole appena riviste con misure che le integrino e le rendano più elastiche e inclusive per chi, come lei, caro Riveros, ha una sincera relazione affettiva con il nostro amato Bel Paese. © riproduzione riservata

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