Albertina, la suora migrante che sta con le migranti

April 9, 2025
«Un dottorato in umanità»: così suor Albertina Pauletti definisce il suo lavoro di direttrice dell’Istituto Madre Asunta che a Tijuana ospita madri e bambini in transito. La città messicana, separata dalla California dal “muro della vergogna”, è l’ultima tappa del sogno americano per migliaia di centro e sud-americani in cammino verso gli Stati Uniti. L’ultimo miglio della speranza. Suor Albertina è brasiliana di nascita e il suo italiano appreso dai nonni emigrati da Belluno è intriso di un dialetto veneto dolce e cantilenante. Per questa radice familiare e per il suo carisma scalabriniano, cioè di frontiera, si sente migrante anche lei, come le donne con cui condivide la vita. Parla con Avvenire in videocollegamento dalla casa in Messico, e intanto si muove da una stanza all’altra, salutando le sue ospiti e organizzando piccoli compiti per l’una e l’altra. Albertina è così: incapace di stare ferma, vitale e coinvolta con tutta sé stessa in ciò che fa. «Ogni donna che passa da qui è una storia. Arrivano per sfuggire alla violenza, dal Messico o da più lontano, Honduras, Salvador, Venezuela. Mariti che le picchiano o gang criminali che minacciano la loro vita sono le situazioni pericolose da cui vogliono o devono uscire. Inseguono il sogno di futuro diverso, migliore».
Suor Albertina Pauletti - A.P.
Suor Albertina Pauletti - A.P.
Cercano, come tanti in quest’area del mondo, un modo per entrare negli Stati Uniti. Oggi è diventato impossibile, qualsiasi via legale è preclusa e ci si affida ai “coyotes”, i trafficanti di uomini che «commercializzano le persone», dice suor Albertina. Quasi tutti sono respinti, molti rischiano la vita. Pochissimi ce la fanno. Albertina mostra la foto di una 50enne honduregna, arrivata nella casa Madre Asunta di Tijuana nel novembre 2024, malandata, sporca, con i piedi piagati. «Il primo giorno non ha parlato. Poi pian piano ha raccontato i suoi 36 anni di matrimonio con un uomo violento, che le infliggeva violenze atroci. Dopo le ultime torture, insieme ai suoi figli adulti ha maturato la decisione di mettersi in viaggio, sola. Ha camminato per giorni e ha percorso l’ultimo tratto, qui in Messico, nascosta in un container stoccato in un camion».
Arrivata alla casa di accoglienza, suor Albertina ha fatto come sempre: le è stata accanto, le ha ripetuto che sicuramente Dio aveva un progetto su di lei, e bisognava avere la pazienza di capire quale fosse. «Qui da noi si è riavvicinata alla religione cattolica, il giorno in cui ha rinnovato i sacramenti si è vestita come una sposa. I suoi figli settimane dopo le hanno scritto che erano riusciti a cacciare il padre da casa. Qualche giorno fa ho ricevuto una fotografia, è lei con sua sorella, negli Stati Uniti. Festeggiano il compleanno e ha scritto il messaggio in inglese».
È successo prima dell’inizio della presidenza Trump. Oggi non c’è più nemmeno la speranza. Ma a Tijuana arrivano lo stesso, anche se meno numerosi. Nell’Istituto delle suore scalabriniane ora vivono 18 donne e madri con bambini su 90 posti disponibili. «Le persone si muovono dai loro villaggi per lasciarsi alle spalle situazioni invivibili. Qui a Tijuana il lavoro non manca, e comunque coltivano l’illusione di potere un giorno oltrepassare il muro».
Le attività della case, come delle numerose altre organizzazioni ispirate a Giovanni Battista Scalabrini sparse nel mondo, vengono sostenute dalla Fondazione Scalabriniana. Albertina, quarta di 9 fratelli, la prima femmina della nidiata, ha vissuto un’infanzia povera. «La povertà è stata la prima maestra della mia vita – racconta –. Ho imparato a farmi bastare quello che c’è». Da missionaria ha prestato la sua opera in Argentina per 27 anni, in Repubblica Dominicana per 11, poi in Brasile, Costa Rica, Roma e infine da 5 anni è in Messico.
Lo scorso dicembre la casa di Tijuana, dove lavora suor Albertina e altre tre sorelle con alcuni professionisti, ha ricevuto il Premio del volontariato internazionale Focsiv. Ora la missionaria è in partenza per l’Honduras, dove assisterà i migranti deportati dagli Stati Uniti già all’arrivo in aeroporto . E di sé dice: «Sono anch’io una migrante. Non sono né brasiliana né italiana. Sono del mondo». Come tutti, del resto.© riproduzione riservata

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