Una parola sull'ignota Arcic e sui buoni motivi di ogni dialogo
domenica 3 maggio 2015
Fatalmente, il tetragramma EXPO è l'oggetto vincente della mia ultima classifica dei titoli ecclesiali più comparsi in Rete, e non solo per il fatto che papa Francesco ha parlato all'inaugurazione. Per contrappasso, voglio soffermarmi a riflettere su un acronimo che invece sconta, e non solo oggi, una modestissima fortuna presso l'opinione pubblica ecclesiale italiana, a maggior ragione quella che si manifesta su siti e blog. La sigla è Arcic, significa Anglican-Roman Catholic International Commission. Dal 1969 alimenta il dialogo teologico tra la Comunione Anglicana e la Chiesa cattolica, e ne parlo perché Francesco l'ha ricevuta in udienza il 30 aprile.Questa Arcic è importante: la prima fase del suo lavoro portò le due confessioni a un passo dal ristabilimento della piena comunione, prima che le vicende interne a ciascuna di esse tornassero ad allontanarle. Ma qui da noi è talmente sconosciuta che nella versione italiana della cronaca dell'udienza i media vaticani preferiscono chiamare l'organismo in altro modo. Se poi interrogo Google, la prima ricorrenza in italiano arriva in fondo alla seconda schermata, mentre Wikipedia – sempre in italiano – la cita solo dentro tre voci e Facebook, prima di offrirmi una pagina inglese «creata automaticamente in base agli interessi degli utenti», mi indirizza verso decine di ARCIConfraternite.Invece a me è molto familiare: diciamo che almeno uno dei miei trent'anni di lavoro giornalistico-editoriale sulla Chiesa l'ho speso sull'Arcic, e con molto guadagno. Riporto, a memoria, una frase che lo sintetizza. Venne pronunciata nel 1989 dall'allora arcivescovo di Canterbury, Robert Runcie, che intervistai in vista della visita a Giovanni Paolo II, e il suo sapiente pragmatismo mi è stato assai utile non solo per raccontare l'ecumenismo, ma anche per sedare qualche tempesta in famiglia, o per recuperare un amico che stavo per perdere. Eccola: «Gli ostacoli non sono una scusa per rompere il dialogo; sono il motivo per cui si dialoga».
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