venerdì 15 febbraio 2013
Belluno, estate 2003 - Il vescovo della città si scopre malato di un cancro già inoperabile. Scrive ai fedeli: sono malato, pregate per me. L'arcivescovado si affaccia sul greto del Piave, coperto da una foschia in cui la prospettiva si perde nell'infinito. Monsignor Vincenzo Savio è un gigante alto un metro e 90, su cui i vestiti ora pendono semivuoti. Mi accoglie sorridente. Io, non so che parole usare. Ma lui è totalmente franco. Racconta della Tac, dei medici attorno che sembravano boccheggiare, e non sapere più che dire. «La prima notte - dice - ho dormito tranquillo. Poi però ho cominciato a pensare alla mia diocesi». La diocesi? domando io. E il vescovo: «Lei, ha dei figli? Se si ammalasse, non penserebbe prima di tutto ai figli?».Un'ora di generosa confessione di sé. Grato, quest'uomo, di una vita intera. Non più un'amarezza, non un rancore. Come a dire: tutto è stato per un bene. Il cancro, come un terzo interlocutore muto fra noi, è impotente davanti alla letizia di un cristiano. Che sia così, un santo? mi chiedo fra me. Salutandomi, Savio mi dice di andare a vedere una certa parete di roccia, nella valle dell'Agner: «È come una cattedrale».Ci andrò, un giorno. Con in mente la faccia del vescovo di Belluno, così sereno, così certo: che ogni cosa, ci è data per un bene.
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