domenica 11 novembre 2007
Il marito deve dire a sua moglie: «Il tuo amore è per me più dolce e più caro di tutto il resto. Se dovessi perdere tutto, se dovessi soffrire, non avrò paura se solo conservo il tuo amore».
Era vescovo nel IV secolo in una metropoli, anzi, in una capitale, Costantinopoli, e perciò - come ancor oggi accade nelle grandi città - vedeva dispiegarsi davanti ai suoi occhi la gamma oscura delle crisi matrimoniali e familiari. Così s. Giovanni Crisostomo in una sua omelia sul c. 5 della Lettera agli Efesini, in cui s. Paolo celebrava la grandezza del matrimonio cristiano, si abbandonava a questa intensa esaltazione dell'amore coniugale. Non so quanti lettori e lettrici possono ripetere queste stesse parole alla loro moglie o al loro marito. Eppure questo è l'ideale che già la Genesi delineava quando affermava che i due devono essere «una sola carne», cioè una sola esistenza e persona. E Paolo commentava: «Nessuno prende in odio la sua carne, ma la nutre e la cura» (Efesini 5, 29).
Certo, la fragilità umana conosce anche il momento della crisi: nello stesso Cantico dei cantici, che è un luminoso poema d'amore, ci sono ben due «notti oscure» in cui i due sono lontani e tra loro cala il gelo dell'incomprensione. Ma l'amore non è come un oggetto che, una volta perso, lo si è smarrito o distrutto per sempre. È una realtà vivente che può rinascere, come un tronco arido può ancora gettare germogli. Basta aver fiducia e pazienza e non affrettarsi - come spesso oggi accade - a seppellire il matrimonio. Aveva ragione lo scrittore francese François Mauriac a dire: «L'amore coniugale, che persiste attraverso mille vicissitudini, mi sembra il più bello dei miracoli, benché sia anche il più comune».
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