domenica 2 febbraio 2003
  i dirò il segno del credente:/ quando a lui giunge la morte,/ erra sulle sue labbra un sorriso.Sono solo tre versi che un lettore di Roma mi ha inviato, assieme ad altri testi di un poeta e filosofo indiano, divenuto però il poeta nazionale dell"odierno Pakistan. Si tratta del musulmano Muhammad Iqbal (1877-1938), che scrisse in persiano e in urdu. Propongo questi versi nel giorno in cui la liturgia ci presenta la figura dolce e amabile del vecchio Simeone che, di fronte al bambino che regge tra le braccia, esclama: «Ora lascia, Signore, che il tuo servo vada in pace"» (Luca 2, 29). Certo, egli sente che la parabola della sua vita sta per consumarsi; ma il suo tramonto coincide con un"alba («i miei occhi hanno visto" la luce per illuminare le genti"») ed è per questo che sulle sue labbra erra idealmente un sorriso.In passato si insegnava a chiedere a Dio il dono di una buona morte. Ora si evita in tutti i modi (anche i preti!) di parlare di fine, di morte, di oltrevita. E, così, la morte è diventata più orrenda di quello che essa sia: spegnersi nel letto di un ospedale tra fredde apparecchiature, sull"asfalto di una strada in un incidente, nell"indifferenza e nella solitudine di un ricovero. Eppure è possibile ritrovare la morte più "umana" e non "industriale" e "meccanica". Per far questo bisogna riscoprire la speranza in un incontro, risentire in noi la presenza del divino, ritessere i rapporti di umanità. In una parola, ritrovare e vivere la fede che fa sbocciare, anche nella crudezza dell"agonia, un sorriso.
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