Siamo tutti «ultras» (la squadra è del cuore)
mercoledì 3 luglio 2019
Siamo tutti ultras. È un fenomeno abbastanza comune nel nostro Paese quello del dividersi, cristallizzarsi intorno a delle posizioni, definire il proprio spazio, difenderlo in modo oltranzista, rappresentarlo in modo unico e distintivo, inventare coreografie più o meno metaforiche per raccontare del nostro amore incondizionato per i nostri colori, oppure elaborare sfottò o dileggio per quelli dei nostri avversari.
C'è qualcosa di meno razionale del tifo? Mi autodenuncio: io, tifoso del Toro, sfilai insieme ad altre 50mila persone in una gioiosa e visionaria «marcia dell'orgoglio granata», nel maggio del 2003 nello stesso giorno della retrocessione in serie B della mia squadra! Sì, perché il tifo (calcistico o meno) non fa riferimento all'emisfero sinistro del cervello, quello che si occupa di logica, calcoli, che funziona in modo lineare e razionale. Il tifo (calcistico o meno) si annida nell'emisfero di destra, quello della creatività, dell'istinto, delle emozioni, del cuore, della pelle, della pancia. Perché proprio in Italia, più o meno esattamente cinquanta anni fa, è nato il fenomeno ultras? Verrebbe da rispondere, con un po' di semplificazione, che in fondo noi siamo sempre stati e rimaniamo il Paese dei campanili, dei Comuni, dei Guelfi e Ghibellini, del Palio di Siena. Siamo anche il Paese dell'arte, della musica, del canto, della poesia, della danza: tutte attività controllate dall'emisfero destro del cervello. Probabilmente abbiamo, nel corso dei secoli, sviluppato un'ipertrofia di quel lobo che ci fa leggere la realtà con una necessità di giudizio emozionale, passionale, in qualche modo definitiva e aprioristica.
Quando parliamo della nostra squadra del cuore (appunto del cuore, non della ragione) ci esprimiamo per assoluti e ci risulta importante tanto manifestare la nostra appartenenza quanto dar contro ai nostri avversari. Anzi, più che importante, sembrerebbe necessario. Una sorta di agóne che ricorda quello della Grecia classica: l'atleta contro l'altro atleta, il mercante contro l'altro mercante, perfino il mendicante contro l'altro mendicante. Non sappiamo quasi godere del momento della vittoria, già proiettati alla ricerca di un nuovo desiderio di competizione contro qualcuno o qualcosa di altro.
D'altronde, come potremmo definire un "noi", se non esistesse un "altro da noi" con cui mettersi alla prova? C'è forse qualcosa di diverso fra quello che succede negli stadi e le caratteristiche del dibattito politico così di attualità in questi mesi, settimane, giorni? Il fatto è che, forse, questa dinamica ci sta sfuggendo di mano. La necessità di polarizzare il confronto intorno a posizioni per le quali ci si debba schierare (a favore oppure contro) è un gioco alla semplificazione che, in qualche modo, è anche un gioco al massacro. Dividersi continuamente, come nella dinamica dello scontro fra ultras, richiede una grande dispersione di energia. Lo scontro continuo richiede una certa fatica, bisogna avere il fisico per sostenerlo. È dispendioso ed espone a molti rischi. Che bello sarebbe guardare allo sport non con l'occhio dell'ultras, ma come fenomeno di anticipazione della realtà! In qualsiasi campetto o palestra dove siano in campo due squadre giovanili è facile leggere i nomi sulle magliette, guardare le meravigliose sfumature di colore della loro pelle, gustarsi gli abbracci con cui Nassim, Ibrahim, Malika, Salma stringono Giulio, Francesco, Sofia o Beatrice, dopo essersi passati la palla e aver fatto un gol o una schiacciata vincente. Lì sul campo, intendo. Perché poi se ci voltassimo verso le tribune, probabilmente, vedremmo uno stuolo di genitori su di giri, anzi fuori giri e persino schiumanti di rabbia. Senza nessuna generalizzazione, per carità, occorre ritenersi fortunati che il futuro sia quello che possiamo vedere sul campo da gioco e non su quelle tribune piene di presunti esperti, tecnici o arbitri che, senza nessuna competenza, passano il loro tempo a vomitare rabbia e sfogare le proprie frustrazioni.
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