Se i talk show televisivi non ci fanno capire ciò che davvero accade
venerdì 31 marzo 2017
Volendo lodare il genere giornalistico dell'intervista (approfondita e non pettegola, naturalmente) uno dei modi migliori è ricordare l'esistenza di "Una città", rivista pubblicata a Forlì e dedicata per più della metà a interrogare, fino a esaurimento (del tema, non dell'intervistato!), i più competenti e diretti testimoni dell'attualità. Troppo spesso la tv e i giornali tendono a invitare le solite persone, un po' per fare spettacolo, un po' per confermare e compiacere le abitudini del pubblico. Così sulla giostra del talk show vediamo cavalcare sempre gli stessi: Travaglio e Severgnini, Padellaro e Damilano, Sgarbi e Cacciari, Mieli e Floris ecc., i quali, in coerenza con se stessi, ripetono più o meno le stesse cose con lo stesso tono e sugli stessi argomenti. Dopo mesi di diligente ascolto, lo spettatore si rende conto di non aver capito né imparato e di aver perso inutilmente le sue serate. Su una rivista per fortuna si può fare di meglio. Chi legge non vuole essere intrattenuto, vuole cercare di vedere le cose più a fondo, superando i luoghi comuni. L'ultimo numero di "Una città" (marzo 2017) si apre con un'intervista a Salvatore Biasco, uno dei nostri migliori economisti, a cura di Gianni Saporetti, intitolata "Il compromesso socialdemocratico". Vorrei precisare che la socialdemocrazia, tanto diffamata dai marxisti e leninisti, è stata il ramo più sano del marxismo, perché non ha prodotto esperienze criminali e catastrofiche e ha preferito il gradualismo riformista. Biasco racconta il declino di quello che fu a lungo il compromesso fra capitalismo e democrazia, fra mercato e controllo pubblico, a cui è succeduta l'affermazione di un'ideologia neoliberista che ha colonizzato la stessa sinistra, in crisi da più di un quarto di secolo. Anche Biasco sottolinea che nella sconfitta della sinistra «il quadro culturale» ha avuto un ruolo maggiore di quello politico. I cittadini sono stati spinti a trasformarsi in consumatori e microinvestitori. E anche le burocrazie della pubblica amministrazione simulano il settore privato come se fossero aziende sul mercato. La stessa etica dello Stato è diventata retoricamente competitiva. Ma le cose, dice Biasco, stanno cambiando. Dopo una crisi che dura da un decennio, «la gente difende lo spazio collettivo e parlare di privatizzazioni è impopolare». Perfino negli Usa, più che in Europa, si cerca di fare una politica industriale di Stato.
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