martedì 9 settembre 2003
Chi conosce gli uomini sa che il rimpianto di non aver commesso una cattiva azione redditizia è molto più comune del rimorso. Tempo fa chiesi ai miei lettori notizie su un autore inglese di cui avevo usato una frase senza però saper nulla di lui, e fui inondato da e-mail, fax e lettere con informazioni su questo scrittore. Ora un lettore abruzzese mi invia alcuni spunti per il "Mattutino", desumendoli dalle Massime, precetti e riflessioni del Duca di Lévis di cui ignoro tutto. La "massima" che ho scelto è, però, veramente pungente e pertinente. Si ha un bel dire, ma più forte di ogni altra ragione morale è sempre il proprio interesse o vantaggio. Il rimorso per la scorrettezza o l'inganno adottato ai fini di raggiungere lo scopo è ben presto tacitato dalla soddisfazione del successo ottenuto. E' per questo che, se su una bilancia ideale si dovesse pesare il rimpianto per non aver osato imbarcarsi in un affare immorale e il rimorso per averlo effettivamente realizzato, il piatto più pesante sarebbe il primo. Tanto può quell'egoismo che già nei giorni scorsi abbiamo posto al centro di una nostra riflessione. A partire da Caino che si tura gli orecchi di fronte alla «voce del sangue di suo fratello che grida a Dio dal suolo» (Genesi 4, 10) fino ai nostri piccoli compromessi, alle nostre giustificazioni, alla narcosi della coscienza, è tutta una storia di sconfitta del rimorso. Vocabolo suggestivo, perché evoca l'idea di una ferita, di un morso che fa sanguinare, di un artiglio o di zanne che si infiggono nella carne del cuore: eppure, come per le lesioni esteriori anche per questo squarcio dell'anima abbiamo approntato rimedi di ogni genere così da ottundere la coscienza. Cerchiamo, invece, di impedire al rimpianto di prevalere sul rimorso e lasciamo viva in noi la consapevolezza del bene e del male.
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