venerdì 13 febbraio 2015
Tra i giovani che conosco - e per motivi diversi ne conosco molti - sono pochi, non per mia colpa o disattenzione, quelli che lavorano in lavori "tradizionali", dalla fabbrica all'artigianato. Molti nel cosiddetto terziario e nel "pubblico" (impiegati, insegnanti, commessi, ma tutti mai o quasi mai in regola con i contratti, sempre precari) ma i più nelle arti (tanti, troppi, il loro numero non è in rapporto con nessun equilibrio passato tra settori economici e sociali) e nel cosiddetto "sociale". Precari anche loro, e non sempre all'altezza di quella che dovrebbe essere anche una vocazione. Alcuni, forse i più seri o quanto meno quelli tra i quali riesco a pescare collaboratori per le riviste di cui mi occupo (Lo straniero, Gli asini) e per le iniziative collegate, sono precari dell'università, contrattisti, borsisti che hanno di fronte carriere incerte e lentissime, dentro un sistema di poteri che esige una riforma radicale, per quanto assurde appaiono tante sue norme e per quanto sembrano insensatamente lontane dai bisogni primari del Paese le loro strade. Molti vanno all'estero, appena possono, e nei loro andirivieni crescono, e capiscono il mondo assai meglio dei nostri giornalisti e dei nostri politici, di cui spesso ci colpisce la superficialità e, diciamolo, il disinteresse per la cosa pubblica a vantaggio della cosa corporativa, di clan, o, peggio ancora, solo privata. I migliori, insomma, sono quelli che, spinti dal bisogno e dall'inquietudine, girano il mondo, ci si confrontano, sono costretti a investigarlo e a capirlo. È su di loro che possiamo credibilmente basare qualche speranza per il futuro di tutti. Certamente non sulla pletora degli "artisti" che, sviati ieri dalle illusioni dei Dams e oggi dalla facilità con cui è possibile far teatro o musica, scrivere e perfino pubblicare, girare film e documentari. (Quella dei documentari è una moda recente: i mezzi tecnici sono facilmente accessibili, e le realtà minime e massime da esplorare le si trova facilmente, il problema non è più cosa mostrare e narrare ma come, e qui i bravi sono pochissimi). Dunque: l'università ha ancora un senso, nonostante tutto il suo vecchiume, le sue baronie, la sua separatezza? Certamente hanno un senso i giovani che hanno ancora voglia di approfondire qualche ramo della conoscenza per passione personale o nella ricerca di una funzione adeguata ai bisogni della nostra epoca.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI