Perché l'allenatore non è solo un tecnico
mercoledì 2 ottobre 2019
Qualche anno fa mi ero occupato, per curiosità e interesse personale, di studiare il modello calcistico islandese. Dopo l'incredibile performance ai campionati Europei 2016, quando l'Islanda spedì a casa gli inventori del calcio, gli Inglesi, e l'altrettanto incredibile qualificazione ai Mondiali in Russia dell'anno successivo (quelli che noi italiani siamo stati costretti a guardare alla televisione) mi ero imposto di capire come fosse possibile che una nazione di 338.000 abitanti, giusto qualcuno in più della città di Bari, fosse riuscita in quelle imprese nello sport più planetario che esista. Scoprii che nulla succede per caso e che la storia calcistica dell'Islanda era iniziata almeno quindici anni prima. La spinta iniziale, nei primi anni Duemila, fu la volontà dello Stato islandese di usare la pratica sportiva come strumento per combattere due piaghe sociali: l'alcolismo e il tabagismo. Nacque un vero e proprio welfare sportivo capace di coinvolgere scuola, genitori, club che si concretizzò nella realizzazione di tanti impianti (all'aperto e, considerata la latitudine, indoor) molto spesso ad accesso gratuito. L'altra parte del progetto si fondava su un lavoro enorme sulla formazione degli allenatori, con quello che a noi pare un paradosso: in Islanda era (ed è) molto più difficile ottenere la licenza per allenare le squadre dei ragazzi che quelle degli adulti e a coloro che vengono considerati i migliori allenatori, non si chiede di lavorare con le prime squadre, ma nei settori giovanili.
Ci ho ripensato in questi giorni, quando la cronaca ci ha riportato alla sconcertante realtà del vice-allenatore della categoria Giovanissimi del Grosseto capace di scrivere, sul proprio profilo Facebook, un commento idiota, volgare e sessista nei confronti di Greta Thunberg, ragazza appena più grande dei calciatori affidati alle sue cure. Erano, per fortuna, perché benissimo ha fatto il Grosseto Calcio a interrompere immediatamente ogni rapporto con lui. Non voglio entrare nel merito delle opinioni su Greta, mi chiedo soltanto se tutta questa frustrazione non rappresenti altro che il nostro rimpianto di adulti di non aver più 16 anni e, induriti e incattiviti, di non credere più alla meraviglia di poter cambiare il mondo. Non voglio entrare neanche nel merito di un giudizio su questo tecnico, riservando il termine allenatore a chi manifesta in modo più alto questo mestiere. Sono certo avrà capito l'idiozia commessa, considerato che, come ormai fanno tutti, dopo aver rovesciato bile e volgarità nel vomitatoio dei social media ha chiesto scusa, purtroppo un attimo dopo essere stato sbugiardato in pubblico.
Ciò che mi interessa è capire come un soggetto propenso a uscire del genere sia potuto finire lì, ad allenare giovanissimi calciatori. Perché? Quale modello capovolto stiamo proponendo? Non sarà che nel mondo dello sport la formazione che riserviamo a chi si occupa di ragazzi che sono nel momento della costruzione della loro identità, del loro carattere, della loro weltanschauung, della definizione del loro modo di stare al mondo, sia quasi esclusivamente tecnica? E pure ammesso che almeno quella sia eccellente, non comprendiamo l'urgenza di mettere a disposizione dei nostri giovani degli allenatori che siano capaci, oltre che a istruire all'esecuzione di gesti, di essere empatici, di insegnare sensibilità e sì, accidenti, una capacità di linguaggio che sia all'altezza del compito? Sono terrorizzato all'idea che, per ragioni varie, ci si preoccupi di trovare ottimi allenatori per le prime squadre e ci si accontenti del primo che passa, o quasi, per i propri settori giovanili. Grandi compiti richiedono grande responsabilità. Qualcuno, ogni tanto, emerge per eccesso di insensibilità e si manifesta navigando spavaldo nel mare inquinato dei social media. Ma, credetemi, ciò che davvero spaventa è la parte sommersa dell'iceberg.
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