venerdì 3 giugno 2022
«Ma veramente la Russia ha invaso l'Ucraina?». Sono passati cento giorni da quel 24 febbraio, quando all'alba ci svegliò un figlio, incredulo. Da quando noi con un urto al cuore l'abbiamo visto: mio Dio è vero: 150mila uomini e colonne infinite di tank da un pezzo d'Europa premevano su un altro pezzo d'Europa. Per settimane siamo stati sotto choc. Poi, giorno dopo giorno, le immagini di città devastate e colonne di profughi e fosse comuni ci hanno sopraffatto. In molti hanno smesso di guardare, di ascoltare. Si vedeva, si ascoltava troppo, di violenza e dolore. Su giornali e siti web, le notizie cominciano a "scendere". Pian piano il primo posto, certi giorni, lo ha ripreso il calcio, o il gran premio, o il processo Depp-Heard. Come ci stessimo abituando. Come convivessimo con una porta, dentro di noi, che non va aperta mai. Dietro a quella porta preme l'incombente carestia nel Sud del mondo. E la sbalordita coscienza che quest'Europa somiglia a quella, tagliata in due, e con essa il pianeta, dalla cortina di ferro. C'è anche, indicibile - infatti non se ne parla volentieri - il timore che di tutti questi missili (sino agli ipersonici e nucleari "tattici"), uno possa finire col toccare noi, le nostre case, i nostri figli. Ma a questa soglia ci si ferma, ci si rassicura: la Nato, l'America, la Ue, via, impossibile. La porta resta ben chiusa. (Non viviamo, però, più esattamente come prima).
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